PALERMO. La corte d’assise di Palermo ha condannato Leoluca Bagarella a 28 anni, Antonino Cinà a 12 anni, Antonio Subranni a 12 anni, Mario Mori a 12 anni, Giuseppe De Donno a 8 anni, Marcello Dell'Utri 12 anni, accusati di violenza a Corpo politico, amministrativo o giudiziario. Otto anni per Massimo Ciancimino che è invece imputato per concorso esterno in associazione mafiosa e calunnia nei confronti di Giovanni De Gennaro. Il figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo è stato condannato per la calunnia e assolto per il concorso in associazione. Mentre sono stati assolti Giovanni Brusca (per prescrizione concessa l'attenuante speciale per i collaboratori di giustizia) e Nicola Mancino che era accusato di falsa testimonianza.
Finisce così (almeno fino al giudizio d’appello) il processo sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia, che si è celebrato davanti alla corte d’assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto. Il procedimento di primo grado si è chiuso dopo oltre 220 udienze. Era il 27 maggio del 2013, quando, davanti all'aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo cominciò il processo dopo il rinvio a giudizio disposto dal Gup Piergiorgio Morosini.
A sostenere l’accusa, allora, c’era anche Antonio Ingroia, che era Procuratore aggiunto di Palermo. Ma fu pm solo per poco perché il mese successivo volò in Guatemala per ricoprire un ruolo su incarico dell'Onu. Le posizioni di Calogero Mannino e di Bernardo Provenzano, nel frattempo deceduto, furono stralciate e nel frattempo sono morti i due boss Provenzano e Totò Riina. Mannino ha scelto l’abbreviato ed è stato assolto in primo grado (è in corso il processo d’appello), mentre Provenzano non è mai stato in grado di poter partecipare alle udienze a causa delle condizioni di salute.
Secondo l'accusa, all'inizio degli anni Novanta ci sarebbe stata una sorta di trattativa tra la mafia e pezzi dello Stato italiano, per raggiungere un accordo sulla fine degli attentati stragisti, in cambio dell'attenuazione delle misure detentive. Tutto partirebbe all'indomani della sentenza del maxi-processo del gennaio 1992, quando Cosa Nostra decise di eliminare gli amici 'traditori' e i grandi nemici. Così, nel giro di pochi mesi furono uccisi l'eurodeputato Dc Salvo Lima, ma anche i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Ma per i magistrati, oltre alla vendetta, l'obiettivo di Cosa Nostra era anche quello di ricattare lo Stato. Così furono organizzati una serie di attentati per mettere in ginocchio le istituzioni. Secondo l'accusa, la trattativa sarebbe proseguita anche oltre l'arresto di Totò Riina, avvenuto il 15 gennaio 1993. Il primo atto del progetto sarebbe stato l'omicidio dell'eurodeputato Dc Salvo Lima. Poi arrivò l'allarme attentati a una serie di politici.
E qui sarebbe entrato in gioco l'ex ministro Calogero Mannino che, per salvarsi la vita, attraverso il capo del Ros Antonio Subranni, avrebbe stimolato l'inizio di una trattativa. La storia sarebbe proseguita con i contatti tra gli ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno e l'ex sindaco mafioso Vito Ciancimino, il papello con le richieste del boss Totò Riina per fare cessare le stragi, l'ingresso nella trattativa del capomafia Bernardo Provenzano.
Il dialogo avrebbe dato i suoi frutti con la decisione dello Stato, nel 1993, di revocare oltre 334 41-bis. Ma l'ammorbidimento della linea sul regime carcerario non sarebbe bastato ai boss e la trattativa sarebbe proseguita con altri protagonisti, come Dell'Utri. Nella storia entra anche l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino: avrebbe detto il falso negando di avere saputo dall'allora Guardasigilli Claudio Martelli dei contatti tra il Ros e Ciancimino. ''Mai fatta falsa testimonianza'', ha sempre replicato l'ex politico Dc.
L'impianto accusatorio si basa, tra l'altro, sulle testimonianze di Massimo Ciancimino, figlio del sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, e Giovanni Brusca. Ciancimino, nel corso di una decina di udienze, più volte rinviate per lo stato di salute precario dell'imputato, ha ricostruito tutti gli incontri che sarebbero avvenuti fra i carabinieri e il padre.
Mentre Giovanni Brusca è il primo a parlare del cosiddetto “papello”. Suscitò clamore la decisione dei pm di sentire, al Quirinale, il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano. L'ex capo dello Stato venne sentito, tra le polemiche politiche, il 28 ottobre 2014. In 'aula' anche l'allora procuratore aggiunto Leonardo Agueci, oltre ai pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi.