TORINO. «È una vittoria per tutti i morti sul lavoro, non solo per i nostri figli»: così le mamme, le sorelle e le mogli dei sette operai morti a causa del rogo dello stabilimento Thyssen di Torino hanno accolto il verdetto della Cassazione, abbracciandosi, piangendo, telefonando anche ai familiari delle vittime dell'Eternit. Con una camera di consiglio abbastanza veloce, i giudici della IV Sezione penale della Cassazione presieduti da Fausto Izzo, hanno respinto i ricorsi dei sei imputati del processo Thyssen tra i quali l'ex amministratore delegato - ed hanno respinto anche la richiesta della Procura della Suprema Corte di riaprire un appello 'ter' per un eventuale ricalcolo delle pene. La decisione della Suprema Corte conferma le conclusioni sanzionatorie stabilite dalla Corte d'Appello di Torino il 29 maggio 2015 al termine dell'appello bis che aveva un po’ limato le condanne su indicazione della Cassazione.
Nel 2013, infatti, le Sezioni unite avevano escluso il reato della mancata installazione dell'impianto di autospegnimento in caso di incendio dal momento che, a loro avviso, non avrebbe potuto impedire il tragico incendio. Adesso sono quindi definitive le condanne a 9 anni e 8 mesi di reclusione per Harald Espen Hahn, a 6 anni e 3 mesi per Marco Pucci e Gerald Priegnitz, a 7 anni e 6 mesi per Daniele Moroni, unico imputato presente in aula, a 7 anni e 2 mesi per Raffaele Salerno, a 6 anni e 8 mesi per Cosimo Cafueri. In serata è arrivato anche il commento della Thyssenkrupp. «Prendiamo atto con rispetto del dispositivo della sentenza. I tribunali italiani hanno dovuto affrontare il difficile compito di valutare penalmente il tragico incidente di Torino e le sue terribili conseguenze per i nostri collaboratori e i loro familiari. Esprimiamo nuovamente - continua la nota della Thyssen - il nostro cordoglio alle vittime e alle loro famiglie. Thyssenkrupp è profondamente addolorata che in uno dei suoi stabilimenti si sia verificato un incidente così tragico. Faremo il possibile affinchè tale disgrazia non accada mai più».
«Questa mattina abbiamo pianto di rabbia, adesso versiamo lacrime di gioia perchè finalmente possiamo andare al cimitero a dire ai nostri ragazzi che giustizia è fatta, anche se il nostro dolore sarà per sempre», ha detto Grazia Rodinò, la mamma di Rosario Rodinò. Con lui, dopo atroce agonia, morirono i suoi compagni di lavoro, Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rocco Marzo, Bruno Santino e Antonio Schiavone. Nella sua requisitoria il sostituto procuratore della Cassazione, Paola Filippi, con un intervento sintetico nel quale non era fatto nessun accenno nè alle vittime nè alla gravità dell'incidente, aveva chiesto l'annullamento con rinvio delle condanne per rideterminare le pene per i reati di omicidio colposo plurimo per tutti e sei gli imputati, e aveva chiesto l'annullamento con rinvio per ribilanciare la valutazione delle circostanze generiche in favore di quattro imputati a suo avviso «non necessariamente» il trattamento sanzionatorio doveva essere «abbassato» ma «purtroppo la Corte d'Appello di Torino ha errato nell'interpretazione della sentenza delle Sezioni unite». Un punto di vista che sembrava aver colto di sorpresa anche il collegio giudicante della IV Sezione Penale. Il punto di vista del pg, ad ogni modo, non ha fatto breccia tra gli «ermellini».
I quattro imputati italiani dovrebbero costituirsi spontaneamente in carcere. Ha già fatto sapere che lo farà Marco Pucci, manager ora responsabile della partecipate dell'Ilva, all'epoca del rogo direttore commerciale di Thyssen. Per i due tedeschi, invece, sarà necessario un mandato di cattura europeo ma non è escluso che in Germania si apra la strada per un rilevante ridimensionamento delle loro condanne. «In Germania il tetto edittale massimo per l'omicidio colposo plurimo è di cinque anni», ha spiegato l'avvocato Ezio Audisio, difensore di Harald Espen Hahn e Gerald Priegnitz. Per effetto di una convenzione tra Italia e Germania, che attua una direttiva quadro comunitaria, è possibile che i tedeschi scontino la pena nel loro paese in base alle loro norme, dopo un procedimento davanti alla Corte federale.
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