Isolati, sospesi in un limbo, dimenticati dall'Europa ma ancora aggrappati al sogno di viverci, terrorizzati dall'orizzonte che si riapre alle loro spalle, dall'idea di ritornare indietro, nella patria che hanno dovuto lasciare, e dalla prospettiva di vanificare un fuga durata mesi. È la fotografia scattata da Medici senza frontiere nel campo profughi di Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia, da settimane teatro di sofferenza e illusioni per migliaia di migranti, e adesso anche di violenza. A descriverla è il presidente di Msf Italia, Loris De Filippi, partendo dal bilancio degli scontri di domenica scorsa, quando la polizia macedone ha usato la forza per respingere i rifugiati che tentavano di forzare le barriere: «Abbiamo soccorso almeno 300 persone, di cui 200 con problemi respiratori causati da gas lacrimogeni, circa 40 con lesioni dovute all'uso di proiettili di gomma, mentre una decina, trasportate negli ospedali vicini, presentavano ferite profonde da arma da taglio e diverse fratture». Ma qual è, quotidianamente, la situazione nel campo? «Assai complicata. Sono più di due mesi che i profughi vanno avanti in condizioni drammatiche. Gli unici aiuti arrivano da associazioni non governative come la nostra e dall'Alto commissariato Onu, ma a volte non bastano. Alcune persone non riescono neanche a dormire al coperto, e quando piove sono costretti a vivere nel fango, al freddo, ammalandosi. I casi di polmonite, ad esempio, sono ormai all'ordine del giorno e riguardano spesso i bambini, che costituiscono il 60% della popolazione del campo. Intanto dal governo greco non arriva alcuna risposta, così come da quello macedone, che ha chiuso ogni spiraglio d'entrata nel proprio territorio. Sono stati lasciati soli anche dagli altri Paesi Ue, che non hanno attivato le procedure per fronteggiare la crisi umanitaria che loro stessi hanno creato». Una terra di nessuno? «Esattamente. Un campo pensato per ospitare 1.500 unità, dove oggi ci sono oltre 11.500 persone che, lo ricordo, scappano da un conflitto durissimo. Anzi, da conflitti: non ci sono solo siriani, ma anche afghani, yazidi, iracheni, curdi. In assenza di attività governative noi e le altre organizzazioni facciamo il possibile, anche con l'aiuto che proviene da privati cittadini, soprattutto dalla popolazione greca che vive al ridosso del confine. I greci hanno dimostrato grande solidarietà inviando ogni tipo di bene utile, dalle coperte ai vestiti ai generi alimentari. Ma ripeto, non basta. Hanno lasciato soli anche noi». Più in generale, al momento, quali sono le condizioni di vita dei profughi negli hot spot della Grecia? «Avevamo il polso della situazione nell'hotspot di Moria, sull'isola di Lesbo, ma dopo l'intesa tra Bruxelles e Ankara, che porterà al ritorno forzato di migranti e richiedenti asilo dalla Grecia alla Turchia, abbiamo deciso di chiudere le nostre attività per non renderci complici di piano scellerato. Ma posso dire con sicurezza che la situazione è drammatica anche lì. Qualche giorno fa il governo di Atene ha ammesso candidamente che né la Grecia né la Turchia erano pronte ad attuare l'accordo siglato a Bruxelles, e che l'Europa aveva forzato le tappe. Lo si sta vedendo in queste ore proprio con gli hot spot, trasformati in veri e propri centri di detenzione nei quali i migranti sono chiusi in attesa di un trasferimento in Turchia, che chissà quando arriverà. Così, anche in quei luoghi, la frustrazione cresce e la rabbia esplode: il primo aprile a Chios centinaia di migranti hanno forzato le barriere e sono scappate al porto, dove oggi vivono in condizioni indecenti, esasperando tra l'altro la popolazione indigena e scatenando le proteste e le marce razziste di Alba Dorata. Ma la situazione è molto pesante anche ad Atene, dove ci sono 14mila rifugiati in attesa di capire quale sarà il loro destino, di cui almeno 4000 accampati nel porto del Pireo». Perché definisce «scellerato» il piano Ue sui migranti? «Almeno per due ragionamenti. Innanzitutto perché si vuol tentare di risolvere con una scorciatoia cinica la crisi, demandando la gestione del problema ai turchi, che in questo momento hanno circa tre milioni di profughi nel proprio territorio. Una soluzione vergognosa, soprattutto se pensiamo che l'Ue ha una popolazione di 500 milioni e 28 Stati membri, dunque possibilità di ospitare i migranti ben più ampie rispetto al Paese della Mezzaluna. La seconda riflessione riguarda il livello attuativo del piano, in particolare il meccanismo dell'uno contro uno, in base al quale per ogni siriano respinto in Turchia dalla Grecia un altro siriano partirà dalla Turchia per essere accolto nell'Ue. Bene, il precedente accordo comunitario siglato lo scorso giugno prevedeva il ricollocamento di 40mila profughi negli Stati dell'Unione, ma ad oggi solo 937 persone sono state riposizionate, e la maggior parte nell'ultimo periodo. Di fronte a tanta lentezza e inefficienza, come si può immaginare che i 75mila rifugiati siriani presenti oggi in Turchia possano essere ricollocati nell'Ue?». E comunque quel meccanismo riguarda, appunto, solo i siriani. Gli altri migranti che fine faranno? «Rimanderemo indietro afghani che abitano nelle province ancora assediate dai talebani, iraniani e iracheni. La stragrande maggioranza di questa gente ha fatto un viaggio impossibile per fuggire da situazioni difficilissime, se non dalla violenza del Daesh (come gli iracheni scappati da Mosul). Pensiamo anche agli yazidi, che sono stati perseguitati, sterminati, con migliaia di donne ridotte a schiave sessuali dai combattenti del Califfato. Nel piano Ue non si prende in considerazione la richiesta d'asilo motivata sulla base di una persecuzione personale, ma solo la provenienza geografica di queste persone. Il piano Ue rispecchia la politica dei tornelli, eticamente sbagliata e concretamente ingestibile. E la politica dei muri, che oltre ad essere inefficace, perché non fermerà i viaggi della disperazione, rafforza i trafficanti di esseri umani». Il piano europeo ha di fatto spezzato la pista balcanica, ma che effetti avrà sull'altra rotta, quella del Mediterraneo? Il flusso si concentrerà sull'Italia? «L'Ue è colpevole due volte: prima è stata troppo permissiva con i Paesi dell'Est, che non hanno aderito al sistema delle quote - sarebbe stata una buona risposta alla crisi migratoria - senza peraltro subire sanzioni; poi ha lasciato che gli stessi Paesi alzassero muri e barriere. Il prezzo di tutto ciò, alla fine, lo pagheremo gli italiani: una volta chiusa la rotta balcanica la pressione resterà comunque forte, anzi si alzerà, e con ogni probabilità i migranti troveranno il modo di scappare da altri parti, puntando all'Italia, e non solo dalla Libia, ma verosimilmente anche dall'Egitto. Già nel 2014 il 40 per cento delle persone soccorse nel Canale di Sicilia non erano di origine africana ma siriana».