Sul tema dell’immigrazione quel che serve più di tutto sono la conoscenza e la consapevolezza. Per questo è un importante risultato l’istituzione della «Giornata della memoria» il 3 ottobre, e sarebbe un segnale doveroso l’attribuzione del premio Nobel per la pace alle isole di Lampedusa e Lesbo. Invece la rotta sembra opposta, sembra quella di mettere da parte persino i diritti umani. Lo sostiene il giornalista del Tg2 Valerio Cataldi, grande esperto di temi di migranti e tra i fondatori del Comitato 3 ottobre. Come valuta l’accordo con la Turchia? Potrebbe essere applicabile anche alla Libia? «Mi sembra follia. La Turchia già non garantisce i diritti umani, e questo è un fatto certo. I siriani che sono lì poi non hanno alcun diritto. Questo accordo sembra non tener in alcun conto questi fatti. Che si parli di estenderlo alla Libia è incredibile: in un futuro astratto di pace e prosperità forse, ma oggi il presente, la realtà dicono tutt’altro. Le persone che arrivano dalla Libia sulle barche sono uscite dall’inferno, raccontano di stupri, violenze. Non vedo come sia anche solo immaginabile rimandare qualcuno là». In questi giorni in Sicilia sono tornati ad aumentare gli sbarchi. Perché? «Sui numeri non so dire. Quello che posso dire è che gli sbarchi c’erano pure prima, ma per qualche mese l’attenzione che si è tutta spostata sulla rotta dei Balcani. È vero che i siriani hanno scelto quella via in massa, anche perché la Libia per loro è scomoda e loro sono gente che qualche soldo ce l’hanno, e non hanno motivo di rischiare la vita mettendosi in mare e correndo incontro ad altre guerre civili. Certo, con la chiusura della rotta dei Balcani - tentata invano altre volte - qualche ripercussione sulle altre rotte ci sarà». Di che numeri parliamo? «Non è prevedibile. Però una cosa la voglio dire. Sono numeri gestibili. Qualche tempo fa il progetto Mediterranean Hope ha portato in Italia qualche decina di profughi andandoli a prendere direttamente in Siria. Su quella base hanno calcolato che con i 3 miliardi di euro dati alla Turchia sarebbero in grado di portare e gestire in Europa tre milioni di profughi. E la Turchia di miliardi ne ha chiesti sei. Il fatto che non si gestiscano questi flussi, con le scene di disperazione cui assistiamo, è frutto di incapacità e/o di mancanza di volontà. La politica sta facendo scelte folli, con un calo verticale della difesa dei diritti umani, senza scalfire il problema. C’è poi una sorta di schizofrenia: il Mediterraneo è affollato di privati che si dedicano a salvare i migranti dal mare, e poi cerchiamo di inventarci sistemi per riportarli indietro là dove non hanno alcun futuro. Se questo è grave e folle per i migranti, figuriamoci per chi ha diritto alla protezione internazionale in quanto profugo e rifugiato». Mi raccontava di alcune sue esperienze recenti a Lesbo, dei giubbotti di salvataggio... «È una storia esemplare. I giubbotti dovrebbero servire a salvare e a farsi soccorrere. Ebbene nell’Egeo (nel Canale di Sicilia a volte neanche li hanno) i migranti usano dei giubbotti neri per non farsi individuare. Un doppio controsenso: in primis si tratta di profughi, dovrebbero cercare protezione; e in secondo luogo il giubbotto serve proprio a farti trovare dai soccorritori. Invece no. Ma non è finita: sono giubbotti improvvisati, cuciti a mano in fabbriche abusive nate apposta in Turchia (e forse, chissà, pure in Libia) che in realtà non galleggiano ma sono pieni di materia spugnosa che semmai tira a fondo». Lei è tra i fondatori del «Comitato 3 ottobre». Soddisfatto dell’istituzione della Giornata della memoria? «Molto. Ma non deve essere una commemorazione. Vogliamo coniugare memoria e accoglienza. Vogliamo costruire momenti di studio e di lavoro, che durino tutto l’anno e coinvolgano soprattutto le scuole. Ciò che serve è la consapevolezza di questa tematica, di chi siano queste persone. Poi ognuno fa le sue scelte, ma bisogna razionalizzare, non lasciare tutto solo in mano a un’informazione guidata dalla politica e dagli interessi, che fa leva sulle paure. Vogliamo che ci sia una presa di coscienza e di conoscenza». Che cosa pensa dell’idea del Nobel per la pace a Lampedusa e Lesbo? «Credo che non ci sia nessuno che lo merita più degli abitanti di queste isole. È un atto dovuto, un segno di buon senso. Loro sono già degli esempi, e Lampedusa in particolare ha insegnato cosa sia l’accoglienza a tutto il mondo, anche alla stessa Lesbo che ha affrontato il problema più tardi. Non solo per quanto riguarda lo scontro con questo tipo di flusso migratorio, si sono dovuti scontrare anche con l’assenza di una risposta centrale pronta ed efficace.