BERGAMO. "Non vi è sera" che Massimo Bossetti, nella sua cella nel carcere di via Gleno a Bergamo, in cui si trova dal 16 giugno del 2014, non preghi per Yara Gambirasio, la tredicenne che è accusato di aver ucciso: "Perchè chi ha fatto questo ha fatto una brutalità che le ha strappato la sua innocente quotidianità".
E' quando cominciano a interrogarlo i suoi avvocati, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, che il carpentiere di Mapello tocca le corde dell'emozione e, mentre parla della sua detenzione, gli si riempiono gli occhi di lacrime. L'unico imputato per l'omicidio della tredicenne di Brembate di Sopra comincia a parlare del suo fermo, nel cantiere di Seriate. "Arrivarono in 40, neanche per Totò Riina. Ebbi paura, stavo per svenire, non stavo scappando".
Poi il carcere, in isolamento e in sezione, dove non voleva andare per la sua "incolumità". "Sputi, insulti" da parte degli altri detenuti e "pressioni", da chi non lo dice espressamente, per farlo confessare, ma "un innocente su che cosa può cedere?". Racconta di aver tentato il suicidio (circostanza a suo tempo seccamente smentita dai sindacati della Polizia penitenziaria e che non trovò conferma presso l'Amministrazione penitenziaria).
"Vedevo tutti i giorni in tv la mia fotografia accanto a quella della ragazza - racconta Bossetti -. Tentai il suicidio ma continuavo a guardare l'unica fotografia che avevo in cella: quella della mia famiglia". Amara la considerazione del legale di parte civile della madre di Yara, Andrea Pezzotta, sui pensieri rivolti da Bossetti a Yara: "Difficile riuscire a stare ascoltare queste cose".
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