Una città in cui «si passava da un assassinio all’altro», cupa, la Palermo degli anni ‘80. Quella in cui venne assassinato, tra tanti altri, nel 1988, anche l’ex sindaco Giuseppe Insalaco. Una figura quasi dimenticata, doppia, «che viene dall’ombra e si muove sempre tra l’ombra e la luce», per usare le parole di Bianca Stancanelli, giornalista e scrittrice, che nel suo ultimo libro, La città marcia (Marsilio editore), ha deciso di ricostruire proprio la sua storia. Fu un rivoluzionario o uno dei primi a capire che con l’antimafia si poteva fare carriera? La Palermo che emerge dal libro è fredda, grigia, una città in cui piove spesso e che neppure sembra avere il mare. Non è barocca, ma stranamente gotica... «Marcia» perché? «Marcio è solo un frammento della città, è la Palermo del potere e degli intrecci misteriosi che Insalaco intravede nei suoi 101 giorni da sindaco. Proprio lui che aveva compiuto tutta la gavetta del giovane democristiano, iniziando a muoversi negli ambienti della politica da ragazzino, quando si affaccia dal punto più alto sul pozzo del potere, rimane stravolto per il marciume che vede». Dopo aver letto il libro la sensazione però è netta: quella Palermo non ha nulla a che vedere con quella di oggi. In cosa è cambiata questa città? «Non c’è paragone con quegli anni. Quella era la città dei morti ammazzati, in cui un quotidiano come L’Ora (dove Bianca Stancanelli ha lavorato, ndr) arriva a titolare La morte ha fatto cento, è la città degli agguati continui. Ricordo ancora il botto che sentimmo dalla redazione il 29 luglio del 1983, quando venne ucciso Rocco Chinnici, e ci precipitammo tutti in strada. Così come ricordo la sera del 26 gennaio de ‘79, ero sola in redazione quando appresi dell’omicidio di Mario Francese. Vivevamo tra un assassinio e l’altro e a Palermo si lavorava con questo senso di cupezza. Io ero arrivata pochi mesi prima, mi ero lasciata alle spalle la Roma del sequestro Moro, una città che viveva nel coprifuoco. Palermo inizialmente mi sembrò molto bella e allegra. Ma durò pochissimo, perché il coprifuoco arrivò anche qui». Il protagonista del suo libro è l’ex sindaco Giuseppe Insalaco, ucciso il 12 gennaio 1988. Una figura dimenticata, un nome che molti fanno persino fatica a pronunciare. Sembra essere l’emblema di quella Palermo in cui, come le dice nel libro l’ex ministro repubblicano Aristide Gunnella, «ciò che appare diventa vero ma ciò che è vero è ciò che non appare». Perché questa scelta? «Proprio perché era dimenticato ed era stato sepolto sotto una slavina di fango. Ho fatto un libro su padre Puglisi (A testa alta, ndr), quando il suo ricordo era vivo essenzialmente nella cerchia dei suoi fedeli. Puglisi emanava luce, una luce splendida, al di là del riconoscimento del suo impegno. Insalaco viene invece dall’ombra e si muove sempre tra l’ombra e la luce. Il suo essere doppio e l’indecidibilità su questa sua doppiezza, questo mi ha attratto. Le parole di Gunnella si riferiscono a tutta la città, ma rappresentano proprio l’enigma della difficoltà logica a scegliere fra le due facce di Insalaco». Insalaco sostenne che «ormai il mafioso con il vestito di velluto e la coppola non esiste più, ha indossato il vestito grigio, mettendo sempre più le mani sull’apparato», ma decise anche di far ruotare i dirigenti negli uffici comunali, persino di limitare l’uso delle autoblu. Sono scelte molto moderne per quei tempi. Era davvero un rivoluzionario o fu il primo a capire che con l’antimafia si poteva far carriera? «Nell’ambito della sua ambiguità, credo che il libro serva da strumento per cui ogni lettore alla fine può scegliere tra queste due facce. Io credo che fosse davvero un rinnovatore e lo dice anche a sua moglie: “Voglio fare una rivoluzione”. Per questo è interessante rileggere la sua storia, anche per capire quanti compromessi è possibile accettare per fare una rivoluzione. Questo suo giocare su due tavoli era una sua partita personale per il potere o invece per la città che voleva cambiare? È una figura complessa, che è stata malamente liquidata come quella di un mascalzone che, con la scusa del rinnovamento, curava i suoi interessi personali. Io credo che i suoi gesti siano stati davvero rivoluzionari e che hanno una forma di attualità sorprendente. Insalaco comprese già allora l’esigenza di trasparenza, quando decise di rendere pubblico l’albo dei fornitori del Comune. Il suo stesso mettere le mani sulla burocrazia, comprendendo che questo era il nodo per il risanamento è una grande intuizione». Allora si temeva persino di pronunciare la parola «mafia», ma l’ex sindaco, rompendo ancora gli schemi, fece fare dei manifesti dopo l’assassinio del segretario regionale del Pci, Pio La Torre, per dire chiaramente che la città era contro — testuale — «l’eversione mafiosa». Oggi la parola mafia viene pronunciata continuamente e spesso anche a sproposito. È davvero perché la società civile è diventata più forte e consapevole? «Ho cominciato a lavorare su questo libro proprio per tornare a quei primi anni ‘80, quando sul pronunciare o meno la parola “mafia” si facevano delle lotte epiche. All’ultima marcia per commemorare la strage di via d’Amelio, lo scorso 19 luglio, lo striscione d’apertura recitava: “Fuori la mafia dall’antimafia”... Mi è corso un brivido lungo la schiena. In trent’anni la situazione si è ribaltata, ma non perché ci siamo purificati o perché c’è stata effettivamente una maturazione delle coscienze. L’antimafia è diventata molto spesso un modo per far carriera, per autocelebrarsi e mi colpisce che questo sia accaduto non in un secolo, ma nell’arco di una generazione». In quegli anni, immaginava che potesse accadere una cosa simile? «Quando nel 1987 uscì l’articolo di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”, pensai che aveva ragione e il tema allora era già fortissimo. Alla terza marcia per commemorare l’omicidio del generale Dalla Chiesa, nel 1985, c’era un esercito di persone, ma le assicuro che c’erano anche delle facce che stavano esattamente dall’altra parte rispetto all’antimafia: dirlo allora sarebbe stato scomodissimo. Ecco perché quella di Sciascia fu una riflessione di enorme coraggio civile, che mise in luce un tema determinante, ma venne orribilmente strumentalizzata. Ed è questo il problema quando si fanno queste considerazioni. Quella fu una questione decisiva e se la si fosse affrontata correttamente allora oggi forse non saremmo arrivati allo striscione di cui parlavo prima». Lei fa riferimento anche alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Leonardo Messina che, negli anni ‘90, sostenne che Cosa nostra fosse pronta a cambiare pelle e che avesse programmato una rivoluzione in vent’anni e suggerisce che se fosse vero, oggi saremo immersi in una mafia che non conosciamo. Com’è la mafia oggi? Cos’è? «Possiamo considerare le evidenze: la mafia non ha più la sua forza militare; se Totò Riina era il “capo dei capi”, oggi è in galera. Il lavoro di bonifica che si è fatto negli anni ha portato a interventi di “ripulitura” in tanti quartieri in maniera costante, come sono costanti sequestri e confische patrimoniali. La Cosa nostra degli anni ‘80 era l’organizzazione criminale più ricca e potente del mondo, oggi non è così e sembra che il primato sia passato alla ‘ndrangheta. È come se Cosa nostra si fosse dissolta, non se ne hanno tracce forti nelle indagini sulle infiltrazioni al Nord, dove emerge invece il ruolo della ‘ndrangheta e della camorra. Naturalmente la mafia non è solo una struttura militare. Basta pensare che sempre alla fine di quegli anni ‘80, secondo i dati del ministero dell’Interno, sarebbero stati schierati in Sicilia 20 mila uomini a fronte di circa 5 mila mafiosi. Un rapporto di 1 a 4 a favore dello Stato. Eppure quella è la mafia che nel giro di pochi anni farà le stragi... La mafia vuol dire anche infiltrazioni nell’imprenditoria, nella politica. Dalle evidenze, però, sembra essersi liquefatta...». Il nucleo del libro è il rapporto tra mafia e politica, che allora sembrava molto evidente. Come si sono evoluti questi rapporti? Sono spariti o sono solo diventati molto più raffinati? «Non erano evidenti neppure allora, li abbiamo scoperti dopo. Si pensi alla figura di Gioacchino Pennino, che poi abbiamo scoperto essere un boss: allora era un medico, nonché un rispettato esponente della Dc palermitana. Lo stesso Vito Ciancimino: nessuno poteva immaginare che andava con i suoi figli a chiacchierare con Riina e Provenzano, che il grado di intimità tra la politica e la mafia potesse essere questo».