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"Dagli ortodossi ai migranti, Papa Francesco abbatte i muri"

Ora che il viaggio di papa Francesco in America Latina si è concluso, possiamo provare a farne un bilancio che vada al di là della mera cronaca. Due i momenti cruciali, su cui riflettere: il breve, ma intenso incontro con il patriarca russo Kirill, la visita, non meno significativa, in Messico.
La scelta di Cuba per il primo è una conferma che, a fronte dell’interesse predominante di Giovanni Paolo II per i paesi dell’Est e dell’attenzione prioritaria di Benedetto XVI per l’Europa centrale, Francesco sembra guardare particolarmente all’America Latina. Non è difficile riconoscere l’influsso delle rispettive provenienze di queste tre figure. Ma c’è qualcosa di più che un legame con la propria origine: papa Wojtyla vedeva come primo nemico da combattere il comunismo ateo; papa Ratzinger, dopo il crollo del comunismo, si è misurato con un nemico più insidioso, la perdita, da parte della vecchia Europa, delle sue radici cristiane e la sua caduta nel relativismo; papa Bergoglio sembra soprattutto sensibile all’esigenza di spostare l’asse della Chiesa al di là dei confini europei, verso le periferie, situate in altri continenti (da dove anche la sua attenzione all’Africa e all’Asia) e finora emarginate non solo economicamente, a causa delle logiche capitalistiche, ma anche umanamente e spiritualmente.
Eppure nell’incontro con il patriarca di Mosca e di tutta la Russia, dopo quasi mille anni dallo scisma e dopo gli ultimi decenni, segnati da tensioni molto forti tra questo patriarcato e il Vaticano, è possibile riscontrare una continuità con le prospettive dei papi precedenti.
A differenza di quello di Costantinopoli, ridotto a un ruolo poco più che simbolico in un territorio ormai da secoli egemonizzato dall’islam, il patriarcato russo raccoglie 200 milioni di cristiani e sta vivendo un momento di forte rilancio, con il forte appoggio di Putin che da tempo, ormai, vede nel cristianesimo l’unica possibile alternativa al vuoto lasciato dalla fine del marxismo. Di questo rilancio si dà atto nella dichiarazione congiunta firmata alla fine dell’incontro: «Rendiamo grazie a Dio per il rinnovamento senza precedenti della fede cristiana che sta accadendo ora in Russia e in molti paesi dell' Europa orientale, dove i regimi atei hanno dominato per decenni». Nello stesso documento si sottolinea che «in un quarto di secolo, vi sono state costruite decine di migliaia di nuove chiese, e aperti centinaia di monasteri e scuole teologiche». È il trionfo della linea di Giovanni Paolo II, di cui ora è testimone il suo successore. Anche se è visibile il chiaro monito a non considerare più, come per un certo periodo è avvenuto, i paesi dell’Est come terra di missione (causando i contrasti sopra accennati).
Peraltro ciò su cui i due capi religiosi si sono incontrati, nella dichiarazione congiunta, è stato da un lato l’appello in difesa delle popolazioni cristiane del Medio Oriente, perseguitate dai fanatici dell’islam, dall’altro il comune impegno perché «l'Europa conservi la sua anima formata da duemila anni di tradizione cristiana». La custodia dell’identità cristiana, dunque, di fronte alla duplice minaccia del fondamentalismo islamico e del relativismo europeo, di cui sono espressione anche la crisi della famiglia e le deviazioni della bioetica (punti espressamente sottolineati nel testo comune) – ciò, insomma, su cui ha sempre insistito Benedetto XVI. Ma ora tutto questo – sotto la spinta di Francesco - confluisce in un clima di dialogo fraterno, impensabile fino a ieri, e diventa progetto comune ai cristiani sia d’Oriente che d’Occidente, nel rispetto delle rispettive differenze.
Molto importante anche ciò che Francesco ha fatto e detto in Messico, un paese devastato dalle contraddizioni sociali e dalla violenza che schiaccia i più deboli, e dove finora i tentativi di una minoranza del clero per denunziare le ingiustizie e sensibilizzare i poveri ai loro diritti erano stati guardati da Roma con estrema diffidenza, o addirittura con ostilità. In questo contesto Francesco è venuto a dire che «solo una Chiesa capace di proteggere il volto degli uomini che vanno a bussare alla sua porta è capace di parlare loro di Dio».
Perciò si è recato nella diocesi dimenticata di San Cristobal de Las Casas, nel cuore del Chapas - che è la regione dove gli indigeni sono stati sottomessi dai conquistatori cristiani, spogliati della loro terra e ridotti in schiavitù - per chiedere loro perdono del passato e promettere un futuro diverso. Nel Chapas Francesco ha ripreso la tematica della sua enciclica Laudato sì, dove aveva sottolineato la stretta connessione tra la violenza verso natura e quella nei confronti dei più poveri. «Alcuni», ha detto il papa, «hanno considerato inferiori i vostri valori, la vostra cultura, le vostre tradizioni. Altri ammaliati dal potere, dal denaro dalle leggi del mercato vi hanno spogliati delle vostre terre o realizzato opere che le inquinavano».
Perciò ha celebrato la sua ultima messa in terra messicana in quell’inferno che si chiama Ciudad Juárez, una delle città più violente del mondo, dove imperano il narcotraffico e la tratta dei migranti che cercano di passare clandestinamente negli Stati Uniti. Contro la «metastasi» rappresentata dai narcos il pontefice aveva già parlato il primo giorno del suo viaggio, invitando energicamente i vescovi messicani a non rifugiarsi in condanne generiche, bensì a portare avanti con coraggio profetico un serio progetto pastorale. Dei migranti, in quest’ultimo incontro in vista della frontiera con gli Usa, per passare la quale tanti disperati sono morti, ha ancora una volta difeso il loro diritto di essere considerati «non numeri, ma nomi». Persone.
E alla fine non ci resta se non prendere atto che, in un momento in cui, in tutto il mondo – anche in quello da sempre considerato “democratico” - i muri e le esclusioni si moltiplicano, quella di papa Francesco è forse la sola voce rimasta a ricordarci che le persone umane hanno un volto.

Persone:

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