Un magistrato innovatore con il coraggio delle proprie idee. Che concepì l’autonomia e l’indipendenza non come privilegio, ma come missione e risorsa al servizio del bene comune. È la sintesi di due giorni di riflessione su «pensiero e azione» di Giovanni Falcone, con lo sguardo all’attualità. Una iniziativa di formazione a Palermo, nella quale si sono confrontati magistrati, avvocati, giornalisti, storici e politici, curata dai giudici Giuliano Castiglia e Gianluca Francolini, e dal pubblico ministero Siro De Flammineis, con il contributo della Camera Penale.
La magistratura di oggi ha bisogno della «paziente determinazione» di Falcone. Che, nonostante minacce e ostacoli interni al suo mondo, non si rassegnò mai all’isolamento e al vittimismo. Anzi ebbe la forza, assieme ad altri, di promuovere nuove strategie processuali, dopo decenni di piena immunità per i boss mafiosi. Non si fece deprimere dai limiti culturali e professionali di un ambiente giudiziario allora, diversamente da oggi, privo di ogni sostegno nella società civile. Un ambiente, secondo i diari di Chinnici, in cui operavano pure magistrati opachi e collusi.
Proprio in quel «contesto critico», Falcone riuscì a valorizzare «pentiti», fare accertamenti bancari, cooperare con le autorità straniere. E con il pool costruì il capolavoro del primo maxi-processo a Cosa Nostra. Se il «sistema» non lo avesse ripetutamente ostacolato, probabilmente avrebbe fatto luce su pagine ancora oscure della storia italiana, sulla mafia nei «centri di potere occulti» e sulla stagione della violenza politica, di cui già parlavano Buscetta e Calderone.
La magistratura di oggi non può dimenticare, di Falcone, la «lucidità di immaginare il futuro». Le sue intuizioni sono alla base di leggi ancora preziose nel contrasto ad ogni forma di crimine organizzato. Ne sono prova tangibile l’istituzione delle direzioni distrettuali e della procura nazionale antimafia, nonché le norme sui collaboratori di giustizia. E, nella eclissi della «prima Repubblica», ebbe il coraggio anche di ripensare al ruolo della magistratura nel sistema istituzionale. Lo fece dialogando da pari a pari con la politica e affrontando le pigrizie e le critiche dei suoi colleghi.
Non tutte le indicazioni di Falcone, ovviamente, erano condivisibili. Ma del suo pensiero oggi apprezziamo l’approccio pragmatico e la passione intellettuale.
Come allora, infatti, la nostra epoca è gravida di cambiamenti. Sono in corso processi di riforma costituzionale. E la giustizia è al centro di tensioni continue. Giudici e pubblici ministeri, non di rado rimproverati di protagonismo e di «invadere» il campo della politica e della economia, si misurano con problemi incancrenitisi per le inerzie di altre istituzioni. Dall’impatto ambientale della industrializzazione del caso Ilva, alla regolarità delle elezioni nelle indagini sui «patti di scambio»; dalla equa distribuzione delle risorse pubbliche nei processi agli amministratori corrotti, alla gestione delle imprese sequestrate alla mafia. Vista la delicatezza delle sfide da affrontare, la magistratura deve «guardarsi dentro» con coraggio. E «ripensarsi», per attuare un «salto di qualità» su formazione, verifiche di professionalità, selezione di chi dirige gli uffici, prevenzione e repressione delle opacità interne.
Tutto questo, però, non significa «sposare» la visione «aziendalistica» della giustizia che oggi in tanti, non solo dall’«esterno», vorrebbero accreditare. Falcone era l’esatto contrario del giudice conformista, «tutto statistiche» e «combinato disposto», attento «a non contraddire il suo procuratore per fare carriera», intellettualmente disimpegnato e sostanzialmente «senza una anima». Con la sua testimonianza dimostrò l’importanza, in una società esigente e complessa, del magistrato dotato di forte senso della realtà, disponibilità a lavorare in equipe, equilibrio e, soprattutto, senso della libertà. Che poi sono le qualità che giustificano la sua soggezione soltanto alla legge. Come afferma la Costituzione.
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