PALERMO. La ragion di Stato? Alfonso Giordano ci pensa su un attimo: «No, non ci guidò la ragion di Stato. C’era certamente l’esigenza di punire per i crimini, tanti, tantissimi, che erano stati commessi e che avevano insanguinato Palermo, trasformandola in un campo di battaglia. Ma prima di ogni altra cosa dovevamo essere certi della responsabilità dei singoli imputati. Giudicammo uomini e non delinquenti: non avevamo posizioni preconcette né pregiudizi». Il presidente del primo, storico maxiprocesso alla mafia è consapevole del fatto che la sentenza della sua corte d’assise cambiò il corso della storia e per la prima volta Cosa nostra vide intaccato il suo principale punto di forza: l’impunità giudiziaria. Fior di giuristi garantisti criticarono quella decisione, il teorema Buscetta che affibbiava la responsabilità dei delitti eccellenti ai componenti dell’organismo di vertice dell’organizzazione, la commissione o cupola. «Ma noi abbiamo condannato solo in presenza di riscontri — ricorda Giordano, 87 anni ottimamente portati — e io temetti a lungo prima i giudici popolari, che potevano mettere noi togati in minoranza, poi il giudizio della Cassazione. Ebbi paura che finisse in mano a Carnevale...». Ebbe paura più di questo o dei pericoli che, negli anni di piombo siciliani, oggettivamente correste? «Guardi, di fronte alla mole del lavoro che ci fu dato da svolgere, non c’era quasi spazio per avere paura. Certo, non posso dire che non ne avemmo: io il terrore lo leggevo soprattutto negli occhi di chi doveva proteggerci. E poi avevo un altro timore». Quale, presidente? «Lo sa perché uscimmo dalla camera di consiglio il 16 dicembre? Perché il giorno dopo era 17 e portava male». La scaramanzia sulla strada della storia. Ecco, ma aveste mai la consapevolezza del fatto che in quell’aula bunker, costruita apposta, stavate facendo appunto la storia? «Nemmeno su questo avemmo il tempo di riflettere: erano troppi gli assilli, le incombenze: io mi alzavo ogni mattina alle 5,30 e alle otto ero già all’Ucciardone a cercare di risolvere i mille problemi pratici che si ponevano a ogni udienza. Oggi, a cose ampiamente fatte, posso dire che il maxi mise dei punti fermi. Prima della nostra decisione c’erano tante, troppe assoluzioni per insufficienza di prove e una sentenza del tribunale di Palermo aveva stabilito che la mafia non esisteva come associazione a delinquere». Poi l’appello cambiò qualcosa, ci furono degli annullamenti, si pensò che tutto sarebbe caduto nel vuoto. Il 30 gennaio 1992 si arrivò al temutissimo giudizio della Cassazione. «La sentenza della corte d’assise d’appello fu poi in gran parte a sua volta annullata dalla Suprema Corte, che ribadì le condanne da noi inflitte. Poiché lo scrissi in un mio libro (“Il maxiprocesso 25 anni dopo”, uscito nel 2011) un collega si offese... Quanto al giudizio finale, ebbi il timore che finisse a Corrado Carnevale». Giudice che aveva fama di ammazzasentenze e che fu pure processato per concorso esterno in associazione mafiosa, venendo assolto. «Io dico che era in buona fede, ma si era lasciato trasportare troppo dall’idea di essere un vindice della giustizia lato sensu. E poi, prima che il maxi arrivasse in Cassazione, aveva rilasciato un’intervista a un quotidiano, in cui aveva fatto capire che non era d’accordo con l’impianto da noi costruito. Un’anticipazione di giudizio bella e buona. Comunque il processo non fu affidato a lui». Ma lei ebbe la sensazione che gli imputati, i capi in particolare, Leggio o Liggio, Greco, Giovanni Bontate, pensassero che sarebbero stati veramente condannati? «In primo grado credo che lo avessero messo nel conto. Forse nei successivi giudizi contavano sull’insabbiamento. Non andò così». Lei accettò di dirigere un processo per il quale tanti altri suoi colleghi si erano tirati indietro, con le scuse più disparate. «E nonostante tutto per me non fu facile, ottenere quell’incarico. Il consigliere del Csm Alfredo Galasso osservò che avevo fatto sempre civile, cosa non del tutto vera. Poi un anonimo mi attribuì inesistenti appartenenze massoniche. Superammo tutto, a costo di viaggi e audizioni a Roma, dove dovetti andare col presidente del tribunale, Francesco Romano. Alla fine eravamo rimasti in lizza io e un collega, Amari, che però aveva problemi di udito. E così fui scelto io». Ventidue mesi di dibattimento tra mille difficoltà. La sua prima sensazione, quella mattina del 10 febbraio di trent’anni fa? «Indimenticabile. Intanto cominciammo in ritardo, cosa che non sopporto, nelle aule, perché un giudice popolare ebbe problemi nel raggiungere Palermo da Cefalù: sentii il bisogno di scusarmi preliminarmente. Poi gli imputati ci scrutavano dalle gabbie, curiosi, duri. E la folla di avvocati, molti dei quali venivano da fuori. I giornalisti, tantissimi». Gli avvocati ce la misero tutta. La lettura degli atti, la sua ricusazione... «Ci salvò la legge Mancino-Violante, che fermò la lettura dei milioni di pagine processuali, che altrimenti sarebbe dovuta andare avanti all’infinito. La mia ricusazione fu strumentale, ripetei ad alta voce una cosa che mi era stata detta dal giudice a latere, Piero Grasso. Ma fu rigettata». I momenti più forti del processo? «La deposizione di Tommaso Buscetta e il confronto del pentito con Pippo Calò. Il cassiere della mafia era in vantaggio, ma io riportai il discorso sull’omicidio di Giannuzzo Lallicata e lì Buscetta attaccò». “Sconfiggendo” Calò, cosa che segnò l’andamento del processo. Ma lei che li vedeva ogni giorno, cosa pensava di questi imputati? «Luciano Liggio aveva una carica professorale, si atteggiava, con quel sigaro spento in bocca. Michele Greco amava ostentare la propria religiosità ma era ambiguo, lo fu anche quando ci fece quell’augurio (“Vi auguro la pace”) prima del nostro ingresso in camera di consiglio. Giovanni Bontate forse faceva il doppio gioco fingendo di stare con i Corleonesi. E poi fu ucciso». Parlò mai con Falcone, durante il processo? «Mai. Era troppo corretto. Sebbene più giovane di me, era un magistrato di vecchio stampo». Un suo successo e un suo insuccesso. «L’insuccesso è forse la domanda che mi è stata posta, a cosa fosse servito spendere tutti quei soldi. Io ho risposto con un’altra domanda: a cosa è servito spendere tanto per il processo Andreotti, che è finito come è finito? Il successo principale per me è che quando vado in mezzo alla gente in tanti mi riconoscono e c’è ancora qualcuno che mi ringrazia». Si aspettava più gratitudine dallo Stato? «Certo, sono arrivato a essere primo presidente della Corte d’appello, come mio padre. Ma è stato un riconoscimento un po’ tardivo, perché subito dopo dovetti andare in pensione. Non ebbi invece il posto di consigliere pretore, che avevo chiesto in precedenza. Dissero che non ero il candidato più anziano».