PALERMO. «La mafia in Sicilia è più organizzata e radicata rispetto alla mafia in Campania e in Puglia. È più sofisticata, un po’ come quella calabrese. La camorra, invece, è più plateale. Basta pensare che a Napoli i ragazzini si armano di kalashnikov e sfidano le cosche in strada per conquistare pezzi di territorio. A Palermo questo non accade. Ma è Foggia, in realtà, la città dove oggi la mafia è più cattiva. Lì sono capaci di farti male sia da vivo, sia da morto: prima, soffocandoti l’esistenza, poi uccidendoti e sfigurando il tuo cadavere». Eccola la fotografia del malaffare nel Mezzogiorno d’Italia scattata dal giornalista Andrea Malaguti, inviato del quotidiano La Stampa. Un affresco dalle tinte cupe, il suo, frutto delle ultime inchieste nei territori caldi del Sud dello Stivale dove le fiamme della violenza rompono il silenzio delle città. Come in Calabria, dove tra dicembre e gennaio, sempre leggendo le pagine de La Stampa, l’ndrangheta ha rialzato la testa. Proiettili, incendi e bombe. Nel mirino delle cosche non ci sono solo gli imprenditori ai quali imporre il pizzo, ma anche giornalisti e sindacalisti colpevoli di raccontare e contrastare i boss. Ma un gruppo di sindaci ha reagito siglando un patto, dal motto: «Noi non ci pieghiamo». Omicidi, droga, estorsioni. I dati delle forze dell’ordine confermano un’emergenza criminalità al Sud che non sembra perdere colpi nonostante arresti e processi colpiscano periodicamente i centri di potere del malaffare. Mezzogiorno prigioniero della legge della strada, è così? «Il vero problema è che al Sud manca quasi completamente la dimensione dello Stato nonostante l’impegno di magistrati e forze dell’ordine sia sempre inteso e costante. La domanda da porsi è: qual è l’alternativa alla mafia che trovano i giovani meridionali per costruirsi una vita diversa da quella criminale? L’alternativa, in realtà, purtroppo non c’è. Prendiamo il rione Sanità di Napoli, per esempio: lì c’è soltanto una scuola elementare per 75 mila abitanti. Non c’è la media, l’unico istituto superiore è il secondo in Italia per numero di abbandoni. In queste condizioni di degrado, immaginare un cambiamento del tessuto sociale verso la legalità è davvero difficile». Qual è dal suo osservatorio lo stato di «salute» di Cosa nostra in Sicilia? «La mafia siciliana è molto forte, sempre ben presente sul territorio. Basta leggere la relazione finale di Roberto Scarpinato in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario per avere le dimensioni del fenomeno. L’anno scorso in Sicilia sono aumentati del 25 per cento i delitti contro la pubblica amministrazione, le estorsioni sono cresciute del 48 per cento, più 49 per cento invece per i reati sul traffico di droga. E ancora, più 22 per cento i furti, più 79 per cento i reati di usura. La mafia siciliana lavora bene, lavora tutti i giorni. Ma lo fa con accortezza. I boss hanno capito che ogni volta che c’è un grosso omicidio l’attenzione delle forze dell’ordine si moltiplica. È una mafia più consapevole di sé stessa rispetto alle altre organizzazioni oltre lo Stretto». Il Nord ha sempre avuto una sorta di presunzione ad apparire quasi immune dalla mafia terrona, ma le inchieste degli ultimi anni hanno dimostrato che corruzione e malaffare, seguendo i grandi capitali, trovano terreno fertile anche sotto le Alpi, con Lombardia e Piemonte in testa. È così? «La mafia ha raggiunto anche il Nord perché ha capito che il mondo è cambiato. Il vero business adesso è la finanza. Il riciclaggio del denaro sporco avviene attraverso i grandi ristoranti e alberghi, le catene commerciali, gli appalti. Operazioni fertili nei territori ricchi, quindi soprattutto nel settentrione». Il proliferare della mafia spesso va di pari passo con il livello di sottosviluppo del territorio dove opera. C’è chi la vede figlia di valori culturali deviati tipicamente meridionali, altri la spiegano secondo un approccio strutturale: l’inadeguatezza della classe dirigente, le scarse politiche sociali ed economiche pubbliche applicate nel Mezzogiorno. Lei cosa pensa? «Fattori culturali e strutturali sono strettamente legati parlando di mafia. Credo, più in generale, che il potenziale del Sud Italia non c’è l’abbia quasi nessun altro Paese al mondo, ma non riesce a diventare una risorsa. Perché? Qualcuno risponderebbe perché per sconfiggere la mafia sono più importanti 500 insegnanti rispetto a 500 poliziotti. È anche la mia chiave di lettura. E poi c’è il tema della formazione della classe dirigente, che riguarda sia il Sud ma anche il Nord. Il punto è le organizzazioni criminali queste debolezze le conoscono e quindi le sfruttano. Si infiltrano nelle amministrazioni locali. A quel punto, tutto diventa molto complicato». Negli ultimi anni in Italia oltre alla criminalità organizzata tradizionale si sono diffusi altri tipi di mafia, complice una più libera circolazione delle persone. Quali sono i pericoli maggiori che arrivano dall’estero? «Da un lato c’è sicuramente il commercio delle armi, che segue soprattutto la rotta dei Balcani, dall’altro lato c’è il traffico della droga. Ma la grande differenza tra la criminalità straniera e la mafia italiana è che la seconda ha due caratteristiche. La prima: un’organizzazione che si occupa di fare affari con la violenza. L’altra caratteristica è che la mafia diventa tale perché il contesto che la circonda le consente di agire in tranquillità. Così, coloro che si ribellano al pizzo e si rivolgono alle forze dell’ordine, magistrati e organizzazioni antiracket, poi immediatamente devono fare i conti non solo con i mafiosi, ma anche con il silenzio, a volte con l’ostilità della società». La forza della mafia si alimenta anche dal fascino che riesce a generare, specie in territori dal tessuto sociale quasi arcaico dove per difendere l’onore della famiglia si può ricorrere a ogni tipo di violenza. Come se ne esce? «Più al Sud che al Nord, purtroppo, ci sono persone che considerano lo Stato un nemico. E quindi è più facile raccontare che esiste un contropotere più forte delle istituzioni pubbliche capace di produrre soldi, prestigio, dominio. E qui torniamo al tema dell’educazione alla legalità fin dalla scuola, che in una regione piena di intellettualità come la Sicilia è davvero paradossale non avvenga. Il vicequestore di Napoli, ma il discorso può valere anche altrove, una volta mi disse: i ragazzi che si danno alla criminalità organizzata in genere hanno una carriera che va dai 17 ai 25 anni. Alla fine finiscono o in galera, o in una bara. Bisognerebbe ricordarglielo più spesso».