PALERMO. «Mentre l’Europa discute, nel Mediterraneo si muore. E a morire sono ancora i più piccoli e i più deboli». È quanto afferma monsignor Gian Carlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes, dopo i continui naufragi nel Mediterraneo orientale, tra «indifferenza e silenzio». Ancora uomini, donne e bambini annegati nel vano tentativo di raggiungere l’Europa. Cosa chiedete all’Europa? «Bisogna presidiare maggiormente il Mediterraneo, il Mar Egeo soprattutto, per salvare queste vite. È necessaria un'operazione di salvataggio in mare che interessi tutto il Mediterraneo, accompagnata dalla nascita finalmente di canali umanitari d'ingresso in Europa per donne e bambini in fuga da Siria, Eritrea, Iraq. Non si può più accettare che il trasporto di queste persone sia in mano ai trafficanti. Soprattutto per le persone più fragili, per le madri, le donne incinte, i bambini, deve avvenire con operazione umanitarie, come è accaduto in passato con navi inviate in Vietnam e in Cambogia per salvare tante vite. Sono strumenti ormai improcrastinabili. Come occorre valutare nuovamente la possibilità di canali d'ingresso legali, che nascano dall'incontro tra domanda e offerta di lavoro, per gli altri migranti provenienti dall'Africa sub-sahariana». Insomma, gli interventi attuali sono un fallimento? «Abbandonare Mare nostrum ha significato affidarsi a un’operazione Triton molto più fragile e meno efficace, anche perché l’asse degli attraversamenti per mare si è spostato verso oriente. Si sta rischiando di fermare i migranti attraverso il ritorno a frontiere nazionali, a muri e controlli, sospendendo il trattato di Schengen. Una catastrofe soprattutto per il mondo giovanile, anche per i nostri giovani emigranti, che, oltre a non avere un lavoro in Italia (nel 40% dei casi), faticheranno anche a spostarsi in Europa alla ricerca di un lavoro. Un ritorno ai nazionalismi, ai protezionismi, agli individualismi che contraddicono la necessità di una cittadinanza globale, che fanno dimenticare il principio della destinazione universale dei beni, la giustizia sociale, che creano veramente insicurezza e illegalità, precarietà e sfruttamento, dispersione di risorse mai come oggi necessarie per la crescita». Canali umanitari e frontiere aperte basteranno a gestire il fenomeno migratorio? «È chiaro che sono necessari interventi a lungo termine nei Paesi in difficoltà. I cambiamenti climatici, per esempio, sposteranno nei prossimi anni più persone di quanto fanno i conflitti. Se per le guerre ci sono 8 milioni di profughi, per i cambiamenti climatici se ne prevedono 24 milioni. Sono questi i temi affrontati al vertice di Parigi, dall’enciclica Laudato si’: se l’uomo non può vivere sulla terra perché avvelenata o strappata via, ha diritto di muoversi e cercare una vita migliore. In questo ha un ruolo importantissimo la cooperazione internazionale». L’istituzione degli hotspot non sta dando i risultati sperati. A Lampedusa i migranti hanno rifiutato di farsi identificare e hanno protestato in paese. Cosa va cambiato? «Bisogna trovare procedure di identificazione e di ricollocamento comuni in Europa che tengano conto del rispetto della dignità umana e dei diritti umani delle persone. In questo senso, preoccupa la politica europea della creazione di hotspot, di fatto centri chiusi che somigliano più ai Cie che a centri di accoglienza. I migranti percepiscono chiaramente il fatto che l’Europa è in una situazione di impasse. Il centro di identificazione ha senso se è il primo passo per poi poter proseguire nel cammino verso i Paesi europei, altrimenti diventa un carcere chiuso. Deve servire per tutelare le richieste d’asilo, non deve essere un imbuto che blocca questo cammino». In occasione della Giornata del rifugiato, Migrantes ha raccolto 10 proposte che possono aiutare a migliorare l’accoglienza dei migranti in Italia. Tra questa c’è l’accoglienza diffusa sul territorio, nelle famiglie. «La Chiesa ha fatto questa scelta dell’accoglienza diffusa, rispondendo positivamente all’appello di Papa Francesco: abbiamo infatti 23 mila migranti ospitati in 1700 strutture. Questo è un modello per far sì che tutti gli ottomila Comuni italiani siano disponibili all’accoglienza di due o tre famiglie, di 7-8 ragazzi, con modalità che non creerebbero alcuna conflittualità sul territorio». E questo vale soprattutto per i minori stranieri non accompagnati? «Stiamo assistendo alla rinascita di piccoli orfanotrofi, di istituti che la legge italiana ha chiuso da tempo. Il fatto che in Sicilia ci siano 4 mila minori e in Piemonte 250 crea ovviamente una sproporzione. Bisogna applicare la legge della tutela di questi ragazzi, la possibilità dell’affido alle famiglie. Non bisogna perdere di vista l’interesse superiore del minore». Stiamo assistendo a immagini terribili di migranti che, prendendo la via di terra, sono costretti a valicare montagne piene di neve, imbacuccati in coperte di fortuna. Cosa si sta facendo per chi arriva dai Balcani? «Speriamo che anche i Paesi dei Balcani sappiano organizzare un’accoglienza diffusa, invece sembra che si creino solo muri e distinzioni. L’Europa della solidarietà va ancora costruita, è necessario cambiare il trattato di Dublino, salvaguardare la libera circolazione, puntare al salvataggio per terra e per mare».