ROMA. Gli ebrei sono più che mai «i nostri fratelli e le nostre sorelle maggiori nella fede», ha ribadito papa Francesco per rimarcare, nella terza visita di un Pontefice alla Sinagoga di Roma - trent'anni dopo Giovanni Paolo II e sei anni dopo Benedetto XVI -, l'appartenenza «ad un'unica famiglia» e «l'inscindibile legame che unisce cristiani ed ebrei». Una visita che, in un clima di grande calore, affetto, cordialità ed emozione ha manifestato concretamente, anche con i gesti i forti sentimenti di vicinanza ed amicizia, dopo i passati contrasti. Ed è un'unità, ha fatto appello Bergoglio, ancor più necessaria in un'epoca di estremismi religiosi che seminano terrore. Dopo aver pregato alla lapide del rastrellamento del Ghetto e salutato gli ex deportati, sopravvissuti ai lager, il Pontefice ha richiamato a che non siano mai dimenticati gli orrori della Shoah, una «lezione» perenne, «per il presente e per il futuro».
L'omaggio alla lapide che ricorda la deportazione degli ebrei romani nel 1943 e quello all'effigie in ricordo di Stefano Gai Tachè, il bambino ucciso nell'attentato terroristico del commando palestinese nel 1982, con l'incontro con la famiglia e le persone rimaste ferite, sono stati i due intensi momenti iniziali della visita alla comunità ebraica. All'interno della Sinagoga, accompagnato dal rabbino capo Riccardo Di Segni, il Papa ha quindi lungamente salutato e stretto le mani ai rappresentanti dei rabbinati, delle comunità ebraiche italiane e straniere, ai rappresentanti dello Stato di Israele, agli anziani ex deportati. Presenti nel Tempio Maggiore (all'esterno e in tutta la zona un imponente dispositivo di sicurezza) anche rappresentanti delle Istituzioni, come il ministro Stefania Giannini, il capo della Polizia, Alessandro Pansa, il governatore del Lazio Nicola Zingaretti, il prefetto di Roma Franco Gabrielli e il commissario straordinario Francesco Paolo Tronca, con la fascia tricolore. A precedere il discorso del Papa, quelli della presidente della Comunità ebraica Ruth Dureghello («l'incontro odierno dimostra che il dialogo tra le grandi fedi è possibile»), del presidente dell'Unione delle comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna («cristiani ed ebrei sono costretti a difendersi da spietati nemici, violenti e intolleranti, che stanno usando il nome di Dio per spargere il terrore compiendo i più atroci crimini contro l'umanità») e del rabbino Di Segni («questa visita è decisamente il segno concreto di una nuova era: secondo la tradizione giuridica rabbinica, un atto ripetuto tre volte diventa Chazaqà, consuetudine fissa»). Il Papa, portando «il saluto fraterno di pace dell'intera Chiesa cattolica», ha voluto ricordare quanto, fin dai tempi di Buenos Aires, gli stiano «molto a cuore» le relazioni col mondo ebraico.
«Voi siete i nostri fratelli e le nostre sorelle maggiori nella fede», ha ripetuto, tra gli applausi, l'espressione coniata da Wojtyla, augurandosi ancora «che crescano sempre di più la vicinanza, la reciproca conoscenza e la stima tra le nostre due comunità di fede». In questi 50 anni dalla dichiarazione conciliare Nostra Aetate, che ha aperto il dialogo tra le due confessioni, «indifferenza e opposizione si sono mutate in collaborazione e benevolenza. Da nemici ed estranei, siamo diventati amici e fratelli». «Sì», quindi, alla «riscoperta delle radici ebraiche del cristianesimo», e «no» ad «ogni forma di antisemitismo». Nella parte teologica del discorso, il Papa non ha toccato i punti di divisione esistenti. Ma è sulle «grandi sfide» del mondo, come la cura del creato, la lotta alla povertà e all'emarginazione, la difesa della vita, che il suo intervento ha avuto i toni più decisi. «Conflitti, guerre, violenze ed ingiustizie - ha detto - aprono ferite profonde nell'umanità e ci chiamano a rafforzare l'impegno per la pace e la giustizia. La violenza dell'uomo sull'uomo è in contraddizione con ogni religione degna di questo nome, e in particolare con le tre grandi religioni monoteistiche». Quindi il ricordo di quanto patito dagli ebrei sotto il nazismo. «Il 16 ottobre 1943 - ha rievocato -, oltre mille uomini, donne e bambini della comunità ebraica di Roma furono deportati ad Auschwitz. Oggi desidero ricordarli in modo particolare: le loro sofferenze, le loro angosce, le loro lacrime non devono mai essere dimenticate. E il passato ci deve servire da lezione per il presente e per il futuro». E al suo commosso saluto rivolto ai «testimoni della Shoah ancora viventi», presenti in prima fila nel Tempio, tutto l'uditorio si è alzato in una 'standing ovation'.
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