PALERMO. «La mafia guazza in una palude di cui fa parte anche il mondo delle professioni, pronto a mettere a disposizione le proprie conoscenze per reinvestire e riciclare capitali illeciti con lo scopo di consentire all’organizzazione criminale di moltiplicare i guadagni». Il procuratore aggiunto Vittorio Teresi, che ha coordinato l’inchiesta sfociata nel blitz della guardia di finanza sugli affari dei boss palermitani, lancia un monito a quell’area grigia che va a braccetto con i boss: «I professionisti che favoriscono Cosa Nostra e con le loro azioni consentono alla mafia di delinquere non hanno più alibi e devono essere consapevoli delle loro enormi responsabilità». Dottore Teresi, l’indagine ha fatto luce sul ruolo di un paio di colletti bianchi palermitani pronti a servire le «famiglie», a intestarsi beni e a gestire la cassa di società immobiliari. Dall’inchiesta viene fuori il profilo di una mafia sempre più imprenditrice, ancora molto vitale nonostante arresti e sequestri di beni per miliardi. Che ruolo gioca in questo contesto il mondo delle professioni? «Se è vero che la mafia militare è indebolita, non si può dire altrettanto del livello economico e politico, che è sempre molto forte e dimostra un attivismo particolarmente pericoloso. I professionisti, grazie alle loro conoscenze specifiche e alla loro rete di relazioni, ne traggono direttamente un profitto e al tempo stesso consentono a Cosa nostra di moltiplicare i guadagni grazie a operazioni di riciclaggio e investimento di capitali sporchi. Nell’ultimo caso, è emerso che un avvocato della buona borghesia palermitana ha messo in atto una serie di manovre per intestarsi dei beni e fondare società nell’interesse dei mafiosi. C’è da dire che con la fine del business in grande stile degli stupefacenti, a metà degli anni Novanta, la mafia si è sempre più fatta imprenditrice, ha privilegiato altri affari, un nuovo sistema per arricchirsi. E per fare impresa occorrono i professionisti, così come consulenti preparati e insospettabili per tentare di sfuggire a sequestri e confische dei patrimoni». Si tratta di personaggi assoldati per svolgere un compito preciso o di affiliati a Cosa nostra? «In questa inchiesta non viene contestato ai professionisti il reato di associazione mafiosa, si tratta di personaggi accusati di avere lavorato con e per i boss. Ma direi che oggi il concetto di affiliazione alla mafia è superato, la punciuta ha un valore ormai relativo. Il vero obiettivo di Cosa nostra è l’arricchimento e molte strade sono buone per fare soldi pur non facendo partecipare alle operazioni persone provenienti direttamente dai ranghi delle famiglie. C’è una visione molto pragmatica rispetto al business». Come vivono i professionisti il loro rapporto con i boss? Si sentono lusingati dal potere pure contare sulla protezione dei mafiosi? «Da quanto emerge dalle indagini sembrerebbe proprio di no. Direi che vivono il fatto di dovere lavorare con esponenti di Cosa nostra con profondo disagio e, probabilmente, anche con un po’ di paura». La mafia imprenditrice avverte l’esigenza di creare imprese pulite per lasciare a figli e nipoti solide posizioni economiche senza correre il rischio di dovere incappare nell’azione della magistratura e delle forze dell’ordine? «In alcuni casi è così, anche se è raro che, alla fine, la mafia rinunci ai vecchi metodi, alla violenza. Nella palude in cui da duecento anni guazza Cosa nostra ci sono diversi schiere: quelle armate, che rappresentano l’esercito e continuano a esercitare un rigido controllo del territorio, personaggi che ogni giorno, dopo avere salutato mogli e figli, battono la strada, chiedono il pizzo a commercianti e imprenditori, regolano i contrasti con metodi violenti. C’è poi un livello più alto, che si occupa di riciclaggio e di investimenti, che tiene rapporti diciamo così ”istituzionali” ed ha la necessità di rapportarsi con il mondo delle professioni, con quanti sono in grado di fare fruttare le ingenti risorse delle cosche. Per fortuna le attività economiche lasciano tracce indelebili che le inchieste portano poi alla luce. E su questo fronte l’azione della Procura e delle forze dell’ordine va avanti senza soste. In un’intercettazione, uno degli indagati, temendo l’arresto, diceva ad un amico di sentirsi ormai al sicuro visto che, giunti al periodo di Capodanno, l’attività investigativa si sarebbe fermata. Evidentemente non è così». A Palermo i professionisti toccati dalle indagini antimafia non sono moltissimi, negli ultimi decenni le inchieste si sono soffermate soprattutto sull’ala militare di Cosa nostra. Ci sono indagini sulla cosiddetta area grigia, sul mondo dei colletti bianchi? «Le indagini fatte bene sono come le ciliegie: una tira l’altra. E quella condotta dagli investigatori del nucleo speciale di polizia valutaria della guardia di finanza è stata condotta con grande perizia. Posso solo affermare che abbiamo già elementi per dire che seguiremo il filo di ciò che ha fatto Cosa nostra nel mondo degli affari».