PALERMO. A quasi vent'anni dalla morte di Giuseppe Di Matteo, che non aveva compiuto neanche 13 anni quando i mafiosi lo strangolarono, l'11 gennaio 1996, e poi ne sciolsero il corpo nell'acido, parla l'altro figlio di Santino Di Matteo, il pentito che contribuì a far luce sulla strage di Capaci. Il rapimento del piccolo Giuseppe doveva servire proprio a bloccare la sua collaborazione. In un'intervista al settimanale Oggi, in edicola da giovedì 7 gennaio, Nicola Di Matteo dice: "Non perdonerò mai mio padre. Se Giuseppe non c'è più è colpa sua. E dei suoi amici mafiosi. Mio padre fu il primo a parlare della strage di Capaci. Parlò per salvarsi. E non si preoccupò di quello che avrebbero potuto fare alla sua famiglia. Mio fratello è stato tenuto prigioniero per 779 giorni, è stato spostato da un posto all'altro, legato mani e piedi. Per colpa di mio padre e dei suoi amici". "Ma suo padre cercò di arrivare alla prigione di Giuseppe, andò a cercarlo con Gioacchino La Barbera e Balduccio Di Maggio, pure loro collaboratori", obietta l'autore dell'intervista. "Lo doveva salvare prima di farlo rapire - è la risposta -. Se non avessero preso mio fratello avrebbero preso me, avrebbero anche potuto ammazzarci entrambi. Ma questo mio padre non lo capisce, non lo capirà mai. Lui è responsabile quanto gli altri della morte di Giuseppe". Ad Oggi affida un ricordo del figlio anche Francesca Castellese, la mamma di Giuseppe: "Mio figlio era un bambino solare, con tanta voglia di vivere. Amava i cavalli, ed era un campione nel salto ad ostacoli. Me lo presero dal maneggio, travestiti da poliziotti della Dia. Il suo ricordo resterà sempre vivo in me. Sono arrabbiata, non sono rassegnata. Una mamma non si può rassegnare...".
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