PALERMO. «La Dia, a livello nazionale, nel 2015 ha operato sequestri conseguenti alle proposte di misure di prevenzione per due miliardi e seicento milioni di euro. Un dato interessante che riguarda Palermo e la Sicilia occidentale: nel valore complessivo nazionale due miliardi e 470 milioni sono stati sequestrati su input del Centro Dia di Palermo. Un dato che rivela anche un trend costante: già nel 2014 il valore dei beni sequestrati era stato pari a due miliardi e mezzo di euro»: sono numeri da record - da qualsiasi angolatura si vogliano leggere - quelli che fornisce il colonnello Riccardo Sciuto, comandante del Centro operativo della Dia di Palermo.
Al di là dei numeri, che saltano subito agli occhi: quali realtà avete colpito con le vostre indagini e i provvedimenti ad esse seguiti?
«Ne cito due a titolo di esempio. Quello che ha colpito il commercialista Giuseppe Acanto, ex parlamentare regionale legato alla famiglia mafiosa di Villabate, con un sequestro da circa 800 milioni di euro. E quello dei primi di luglio nei confronti della famiglia Virga, imprenditori della zona di Marineo (ritenuti legati al mandamento di Corleone, ndr): sono stati sequestrati beni mobili, immobili, aziende, conti correnti. Un'indagine che ha svelato un nuovo modo per tentare di nascondere i beni illeciti...».
Racconti, colonnello...
«Nel caso dei Virga c'è stato l'utilizzo di un istituto giuridico ancora poco conosciuto in Italia, il "trust": una norma che consente al proprietario di spogliarsi dei propri beni e affidarli a terzi che li amministrano in autonomia. Il trust è uno strumento lecito, nato per evitare conflitti di interesse e garantire i beni dell'interessato (i trust sono istituti previsti dal diritto anglosassone, il Common Law, che permettono ad una persona fisica o a una società di privarsi del suo patrimonio: una condizione che può servire a tanti scopi, ma quello più frequente è di non apparire il proprietario di quel patrimonio). Quando questo strumento viene utilizzato esclusivamente per dissimulare il proprio patrimonio continuando a governarlo di fatto allora diventa un reato».
Come avete scoperto questo sistema?
«Il patrimonio dei Virga affidato al trust era amministrato dallo stesso commercialista che ha gestito in passato i beni dei Virga. Dunque non era, come prevede la legge, un soggetto "terzo". In questo caso, nel contenitore del trust, la famiglia Virga ha fatto confluire un migliaio di quote di immobili riconducibili all'imprenditore sospettato di legami con l'organizzazione mafiosa».
Nel caso dei Virga, ci sono state proiezioni verso il nord Italia?
«Le evidenze già raccolte hanno testimoniato l'interesse di Cosa nostra a inserirsi nella ricostruzione post terremoto in Emilia Romagna. Anche i Virga avevano mostrato interesse verso tale mercato. Il progetto non si concretizzò perché non vennero raggiunte le intese, ma l'interesse a inserirsi comunque nel giro affaristico di opere o servizi, all'acquisizione di finanziamenti pubblici e all'ottenimento di autorizzazioni e concessioni nel particolare settore lo abbiamo raccolto».
Come scegliete gli obiettivi di analisi e indagini?
«Se la mafia imprenditrice fonda la sua forza espansiva sull'opportunità di beneficiare di vantaggi competitivi rappresentati dalla possibilità di disporre di capitali di origine illecita teoricamente illimitati in grado di distorcere la concorrenza e alterare il funzionamento delle regole di mercato, la D.I.A. risponde attraverso un approccio alle indagini che mira a privare le organizzazioni criminali della propria linfa vitale attraverso il sistematico ricorso al sequestro e alla confisca degli asset economici, finanziari e patrimoniali di origine delittuosa».
Si registra in Sicilia una nuova ondata di ribellioni contro il racket. È il segno di una strada senza ritorno?
«Una reazione esiste, ma quale sia la sua percentuale rispetto al contesto generale non lo possiamo ancora stabilire. In ogni caso, ritengo trattarsi di una quota parte minima del parterre composto da coloro che sono sottoposti a richieste estorsive. Bisogna poi distinguere tra gli imprenditori che si sono presentati loro sponte alle forze di polizia per denunciare l'illecita imposizione, da quelli che sono chiamati a confermare l'eventuale evidenza investigativa emersa dalle indagini. Sono ancora pochi - rispetto alle attese delle forze di polizia - i numeri di chi denuncia d'iniziativa. Sono maggiori quelli chiamati a confermare dopo indagini già avviate. Direi che rispetto al contesto generale siamo ben al di sotto delle attese di coloro che, come i giudici Falcone e Borsellino, hanno perso la vita anche nella speranza di una società migliore e diversa. È vero, molti passi avanti sono stati fatti, Cosa nostra non è più quella di venti anni fa e una nuova coscienza sociale si è affacciata. Ma la percentuale di chi denuncia è ancora al di sotto di quella soglia che consentirebbe di parlare apertamente di risveglio sociale generalizzato».
Qual è la situazione nella Sicilia occidentale in questo contesto?
«Palermo da maggiori risposte rispetto ad Agrigento e Trapani, ma confido che anche in queste due province la situazione possa migliorare. Cosa nostra trapanese e agrigentina sono affini a Palermo, benché siano caratterizzate da più solidi e radicati legami familiari, quindi più difficili da penetrare».
Cosa sta avvenendo nel ventre di Cosa nostra?
«Parlo della Sicilia occidentale, ma è una valutazione che si può estendere a tutta l'isola: Cosa nostra appare tuttora impegnata in una costante opera di rimodulazione degli assetti e delle aree di influenza e, nonostante l'incessante opera di contrasto da parte dello Stato, registra ancora una notevole potenzialità offensiva pur perseguendo una politica militare tendenzialmente di basso profilo e occultamento. Sul piano gerarchico, inoltre, mantiene ancora una struttura unitaria e verticistica, articolata nel rispetto della tradizionale (ma non più rigorosa) suddivisione territoriale in famiglie e mandamenti. Il rispettivo asset di comando vede i capifamiglia e i capimandamento conservare la loro carica anche durante l'eventuale stato di detenzione pur delegando l'esercizio delle funzioni "territoriali" a specifici soggetti chiamati reggenti».
Ma registrate movimenti interni?
«In termini di novità, emerge come l'individuazione dei reggenti sia più oculata rispetto al recente passato per evitare che i sodalizi finiscano nella mani di persone giovani e impulsive. Si assiste pertanto, in termini comunque tendenziali, al recupero di figure anziane e d'esperienza, magari "posate" negli ultimi anni, che sappiano agire con fermezza ma con maggiore saggezza. Ciò non esclude l'attuale esistenza di frizioni interne da sedare anche con la forza, ma sempre dissimulandone le reali ragioni e mantenendo un basso profilo».
È Matteo Messina Denaro il nuovo capo di Cosa nostra?
«Certamente non lo è sul piano formale: Cosa nostra elegge il proprio vertice nell'ambito della Cupola, che però non risulta essersi riunita negli ultimi tempi, solo in parte sostituita da una sorta di direttorio, un ibrido fra la disciolta Commissione provinciale allargata a tutti i capimandamento ed il periodo della dittatura corleonese. Il capo di Cosa nostra, pur con le "limitazioni" determinate dal suo stato di detenzione e dalle sue condizioni di salute, sembra essere ancora Totò Riina».
E a Trapani?
«Comanda Matteo Messina Denaro, comanda lui, non c'è dubbio».
La situazione ad Agrigento?
«Le ultime operazioni hanno interrotto la rinascita e la crescita di famiglie importanti come quella di Porto Empedocle o quelle radicate nell'area saccense. L'ultimo arresto di Leo Sutera, ritenuto rappresentante provinciale di Cosa nostra agrigentina e anello di congiunzione con le famiglie trapanesi, ha probabilmente interrotto questo processo di evoluzione».
E a Palermo?
«Come ho detto, Cosa nostra appare al momento disorientata grazie anche alle severe operazioni di polizia intervenute anche recentemente e attraversata da una fase di apparente transizione. Mancando punti di riferimento, appare oggettivamente difficile potersi sbilanciare nel prevedere quale sarà il nuovo ordine che l'organizzazione potrebbe darsi nel breve termine. Allo stato, il territorio provinciale risulta suddiviso in una quindicina di mandamenti ed una ottantina di famiglie».
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