PALERMO. «La crisi morde anche per Cosa nostra in Sicilia, ma ciò non significa che la mafia si sia indebolita». Ne è convinto lo storico e studioso della mafia Giuseppe Carlo Marino, che spiega come l’impoverimento di alcune aree del sud Italia abbia ridotto anche le possibilità per le organizzazioni criminali di arricchirsi, come testimoniano le indagini nell’ambito dell’operazione «Panta Rei», che ha portato al fermo di 38 persone: «I clan hanno risposto spostando i loro interessi laddove c’è maggiore possibilità di aumentare i loro profitti - spiega Marino -. Ecco, perché guardano di più al nord Italia e all’Europa». Perché un clan arriva a cercare profitti anche nel settore ittico? «Bisogna considerare che si è spostata territorialmente l’area di incidenza del fenomeno mafioso, nel senso che si è spostata dalla Sicilia al resto d’Italia per arrivare dove ci sono risorse. In una fase di crisi la mafia cerca di essere presente laddove c’è la possibilità di fare soldi. Quindi aree come il Sud e la Sicilia diventano marginali anche per gli interessi della mafia, che pesca dove può». Si può considerare come un indebolimento dei clan in Sicilia? «Ciò non significa che la mafia sia meno forte, ma che ha direzionato meglio i riferimenti delle sue attività. Quindi il degrado che attraversa il Sud dal punto di vista economico obbliga Cosa nostra a spostarsi laddove ci sono maggiori interessi. In questo processo è chiaro che si determina una marginalizzazione dell’organizzazione nelle aree tradizionali, del sud in genere e della Sicilia in particolare. Questo processo è generato dal fatto stesso che l’obiettivo primario della mafia è sempre stato l’arricchimento e il potere. Quindi dove c'è maggiore possibilità di arricchimento c’è maggiore interesse della mafia a insediarsi». Come si spiega che una donna, come nel caso di Teresa Marino, moglie del boss Lo Presti, attualmente detenuto in carcere, possa arrivare al vertice di un'organizzazione criminale esclusivamente maschile? «Si spiega grazie alle mutazioni antropologiche che hanno investito la società negli ultimi cinquant’anni che sono finalmente pervenute alle donne, eliminando quella che era una tradizionale condizione di inferiorità nella società, inferiorità che si trasferiva anche alla societas criminale. Così all’interno del clan la donna ha acquisito un ruolo paritario capace di affermarsi anche su altri membri delle organizzazioni». In ciò può avere inciso il legame familiare col boss? «È possibile che essendoci un legame di sangue col boss in carcere gli ordini possano arrivare meglio all’interno del clan. Però non c’è dubbio le donne per le loro capacità e potenzialità criminali siano riconosciute al pari degli uomini. A parte il fatto che è riconosciuto nella cultura siciliana un ruolo preminente della donna nelle attività pratiche che hanno a che fare con la gestione della casa e dei patrimoni familiari. Anche se è un ruolo che non è mai emerso in maniera evidente perché non è mai stato ufficializzato, ma è sempre esistito». Non è dunque un caso che uno dei principali ruoli della moglie del boss Lo Presti fosse quello di gestione "manageriale" del patrimonio e delle spese del clan… «Esatto. È la conferma di processi che si sono sviluppati in maniera sotterranea nei decenni precedenti, processi che adesso si manifestano in maniera evidente. I gruppi mafiosi sono anche imprese criminali, quindi bisogna riconoscere che è necessario che abbiano un ruolo di coordinamento paragonabile a quello di un manager che in questo caso non è altro che quello della donna che gestisce la casa e i patrimoni della famiglia. Compiti che una donna può svolgere benissimo, anche in virtù delle affinità con quelli che previsti proprio dal ruolo attribuito alla donna nella tradizione siciliana. Del resto, non ha fatto altro che estendere nel clan quelli che erano i compiti che già svolgeva all’interno della propria famiglia. Compiti che l’organizzazione criminale aveva bisogno di affidare a qualcuno che li sapesse svolgere bene. Certamente non sarà stato il solo ruolo che la donna si trovava a dover svolgere, ma neppure un ruolo di poca importanza». Com’è cambiato il ruolo della donna nelle organizzazioni criminali? «Dall’esterno credo che si possano notare poco le manifestazioni di cambiamento e le trasformazioni del ruolo della donna all’interno delle organizzazioni mafiose. Per capirle meglio bisognerebbe osservare dall’interno i rapporti che le donne hanno con l’organizzazione criminale. Un dato di fatto è che le stesse donne hanno degli stili di vita quotidiani simili a quelli delle altre donne. E rispetto al passato questa forma di liberalizzazione sia nei rapporti che negli stili di vita si è verificata in maniera notevole. Certamente in qualche misura continuano a subire un controllo dagli altri membri del clan in base al loro ruolo. Credo però che questa trasformazione si traduca in maniera non omogenea». In che senso? «Ci sono realtà in cui l’assunzione di ruoli direzionali da parte delle donne sia un fatto accettato e accertato. Ci sono invece altre aree e altri raggruppamenti in cui l’adeguamento a questa trasformazione non è ancora avvenuto oppure è rifiutato». C’è una tradizione di donne al comando di gruppi criminali? «Non si è ancora instaurata una tradizione. Ci sono casi isolati. Una tradizione vera e propria non esiste. Tra l’altro la struttura culturale della mafia è sempre stata profondamente maschilista oltre che gerarchica. Difficilmente mi pare che l’arrivo di una donna al comando del clan possa essere un segnale di crisi dell'organizzazione mafiosa. I dati con i quali ci confrontiamo ci presentano un complessivo rafforzamento del ruolo della mafia, non di perdita di potere o di consistenza sociale».