Arresti a Misilmeri, Agueci: Cosa nostra in provincia è forte, ma lo Stato c'è e la gente lo sente
PALERMO. Troppo facile illudersi che, nonostante gli immensi sforzi compiuti, Cosa nostra sia stata sconfitta. «La mafia c' è e proprio in provincia la sua presenza si conferma nelle forme più tradizionali, ma c' è anche lo Stato e la gente lo sta capendo, lentamente le cose stanno cambiando», spiega il procuratore aggiunto Leonardo Agueci, che ha coordinato le indagini dell' inchiesta «Jafar 2», che ieri mattina hanno portato sette arresti nel mandamento mafioso di Misilmeri e Belmonte Mezzagno. Da questa inchiesta emergono diverse ipotesi di estorsione. Gli imprenditori e i commercianti hanno collaborato alle indagini? «Sì, hanno collaborato. La collaborazione può avvenire in diversi modi e in questo caso è stata "indotta", nel senso che le vittime hanno confermato le nostre acquisizioni investigative. Non è stata una denuncia spontanea, ma in nessun modo da parte di imprenditori e commercianti abbiamo riscontrato un atteggiamento di chiusura». Il pizzo sarebbe stato chiesto anche a un pescivendolo ambulante, ovvero a qualcuno che certamente non può contare su grandi incassi. Sembra quasi che Cosa nostra, in difficoltà, si sia arresa alla logica del «pochi, maledetti e subito»... «Non è così. Gli ambulanti hanno sempre pagato il pizzo, persino i posteggiatori abusivi. La mafia continua a prosperare sulle estorsioni e questo le serve soprattutto per manifestare il suo potere sul territorio. Per questo tutte le attività commerciali devono pagare, anche in questa fase di crisi economica e anche se si tratta di cifre modeste». Dalle ultime operazioni si ha l' impressione che, rispetto alla città, in provincia gli imprenditori si ribellino più facilmente all'imposizione del pizzo, mi riferisco alle decine di commercianti di Bagheria, ma anche a quelli di Corleone. È davvero così? «È esattamente il contrario. In provincia il controllo del territorio è molto più capillare e concreto sia sulla società che sulle attività economiche: un' azienda non fa in tempo ad aprire che già deve fare i conti con le richieste dei mafiosi. Il rapporto peraltro è molto più stretto in paesi così piccoli. In provincia in sostanza persistono le forme di potere tradizionali dell' organizzazione, perché è proprio in questi posti che Cosa nostra è più radicata e forte. È proprio qui che, di conseguenza, è anche molto più difficile da estirpare. Cerchiamo di far sentire maggiormente la presenza dello Stato: a Misilmeri ogni riorganizzazione dei clan ha comportato nuovi arresti. La mafia c' è, ma appunto c' è anche lo Stato». E in città, invece? «Si tratta di una realtà molto più complessa, composta da tante zone diverse e dove conta molto il peso del boss che ha il controllo in quel momento. Cosa nostra resta forte, ma la contrapposizione con la società civile esiste e lentamente la situazione sta anche cambiando». In provincia sono emersi episodi di violenza particolarmente gravi pur di costringere le vittime a pagare il pizzo? «Abbiamo riscontrato soprattutto delle intimidazioni più che della violenza. Anche in questo aspetto ritroviamo un comportamento molto tradizionale. Permane cioè quell' atteggiamento confidenziale, che suona più come un consiglio che come una minaccia, tipico del metodo mafioso. E questo modo di fare funziona meglio dell' aggressività e della violenza, a cui, se necessario, l' organizzazione comunque non rinuncia». Da quest' inchiesta dunque emergono soprattutto conferme per quanto riguarda la struttura e il modus operandi di Cosa nostra. In passato, in relazione alla città, si è parlato di una sorta di parcellizzazione dell' organizzazione in più bande e tendenzialmente autonome. Cosa ne pensa? «Cosa nostra non è composta da bande di cani sciolti. Ci sono equilibri che possono mutare anche in relazione ad arresti e scarcerazioni, ma resta un' organizzazione strutturata e gerarchica e permane la consapevolezza della sua unicità».