PALERMO. L'indagine per mafia nei confronti di Calogero Mannino cominciò alla fine del 1993. Poco dopo, il 24 febbraio 1994, gli venne notificato un avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa. Era il primo atto di un'odissea giudiziaria che in oltre 21 anni è passata attraverso sei processi e forse non è ancora conclusa dopo l'assoluzione di oggi nel giudizio stralcio per la trattativa Stato-mafia. La sentenza è stata accolta dai difensori dell'ex ministro dc come l'epilogo di un «incubo». Ma per Mannino, che aveva scelto il rito abbreviato, è soprattutto una «decisione coraggiosa» dalla quale trae conferma la sua fiducia nella giustizia e nei giudici anche se si sente vittima «dell'accanimento e dell'ostinazione di alcuni pm». C'è stato un momento in cui la sorte di Mannino sembrava invece segnata. Il 13 febbraio 1995 era stato arrestato su ordine del gip Alfredo Montalto. Per dieci mesi era rimasto in cella a Rebibbia. Quando il 15 novembre 1995 venne scarcerato apparve un uomo provato e dimagrito di 33 chili. E lo aspettavano altri 14 mesi di arresti domiciliari. Il processo di primo grado si aprì il 28 novembre 1995. Il dibattimento durò quasi sei anni. Si concluse nel 2011 dopo 300 udienze e l'audizione di 25 pentiti e 400 testimoni (250 quelli citati dall'accusa). Alla fine Mannino, tornato intanto in Parlamento come deputato dell'Udc, fu assolto. Era il 5 luglio 2011. La sentenza venne ribaltata in appello: l'11 maggio 2005 Mannino fu condannato a cinque anni e 4 mesi. Ma non era finita. Il 12 maggio 2005 le sezioni unite della Cassazione annullarono la decisione e ordinarono un nuovo processo d'appello che il 22 ottobre 2008 si concluse con una nuova assoluzione. Stavolta definitiva perchè il 14 gennaio 2010 la Cassazione mise fine alla vicenda giudiziaria confermando il verdetto. Malgrado i 24 mesi trascorsi tra Rebibbia e gli arresti domiciliari, Mannino non è riuscito però ad avere il risarcimento per «ingiusta detenzione». Secondo la Cassazione, la misura cautelare era giustificata dal fatto che l'ex ministro aveva «accettato consapevolmente l'appoggio elettorale» di un esponente mafioso. Sembrava che il caso si potesse chiudere con una soluzione di compromesso: Mannino estraneo alla mafia, e perciò assolto, ma inserito in un contesto che più tardi, nel febbraio 2012, sarebbe stato riletto in una diversa prospettiva. Nel 1992, era la tesi dell'accusa, Mannino si sarebbe sentito in pericolo di vita dopo l'uccisione dell'eurodeputato dc Salvo Lima. Le condanne del primo maxiprocesso avevano spezzato il «patto» tra la mafia e alcuni esponenti politici. Per fermare la reazione di Cosa nostra, intenzionata a colpire obiettivi eccellenti, Mannino sarebbe diventato il regista di un «dialogo» con i boss. E dunque sarebbe stato il perno di una «trattativa» globale mediata da Vito Ciancimino. L'ex ministro dc ha sempre contestato questa tesi e per non ritrovarsi in giudizio al fianco di Totò Riina e Bernardo Provenzano ha scelto il giudizio abbreviato che ora gli riconosce di «non avere commesso il fatto» ma non chiude ancora, a quanto pare, l'epico confronto con l'accusa.