Ore 15 di martedì 9 giugno 2015, Alfonso Sabella sta rispondendo alle domande di questa intervista. Poi si sentono urla, rumori di sottofondo, porte che sbattono, imprecazioni. Il tono resta cortese, ma deciso. «Questi impiegati ce l’hanno con me. Devo chiudere, rischio che mi ammazzino davvero. A presto». Questa la vita del neo assessore alla legalità del Comune forse più illegale d’Italia: Roma. Sabella è stato forse il più grande cacciatori di latitanti della magistratura italiana, i più grossi li ha praticamente presi tutti lui. Bagarella, Brusca, Aglieri, Spatuzza. Tranne Riina. E forse è stato meglio così, per lui. Dopo varie parentesi e alterne fortune, dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al tribunale di Roma («dove giudicavo i ladri d’auto», sue parole testuali), adesso cerca di far uscire dal tunnel la giunta Marino, prostrata dagli scandali di Roma Capitale.
Ad occhio e croce non sembra un lavoro facile...
«Per niente, c’è una mole enorme di cose da fare, ma soprattutto c’è da cambiare radicalmente un sistema di amministrazione».
Era più facile il lavoro di pm antimafia?
«Quasi, quasi...no, direi che ci sono difficoltà diverse. Quando ho iniziato a lavorare a Palermo, (lui è originario di Bivona) sapevo chi erano i mafiosi ma non sapevano dove stavano. A Roma, so chi ci lavora, ma non so chi ho veramente davanti a me».
E lei come si comporta? Ora è un assessore, non un pm...
«Questa è la vera questione. Ogni tanto parlo con un dirigente, oppure leggo un documento e mi viene subito di piazzare una microspia. ”A questo lo metterei sotto intercettazione”, penso. Ma non posso. Allora devo usare solo gli strumenti che l’amministrazione mi mette a disposizione».
Quali «armi» usa allora contro i corrotti ed i collusi?
«Ci sono tre cose da fare per cambiare l’amministrazione e renderla efficiente e trasparente. La prima è la programmazione, sembrerà una banalità ma non è affatto così. Bisogna approvare i bilanci in tempo e prevedere la stragrande maggioranza delle spese. È il metodo più efficace per evitare le procedure di somma urgenza, quelle senza gara pubblica per intenderci, che possono nascondere rapporti illeciti. Poi bisogna aumentare al massimo la concorrenza tra le aziende. Più offerte arrivano, maggiori sono le possibilità per ottenere buoni servizi e prezzi vantaggiosi. Il terzo passaggio sono i controlli. Bisogna sempre verificare quanto è stato fatto, qual è la qualità dei servizi offerti e delle prestazioni svolte da chi ha ottenuti lavori dalla pubblica amministrazione. Perchè ancora oggi ci trasciniamo un problema mai risolto».
Ovvero...
«Che corrompere conviene. È terribile dirlo, ma è così. L’imprenditore disonesto, solo per fare un esempio, invece di fare 10 centimetri di manto stradale, ne fa solo 3. Ha un risparmio enorme sui materiali, e poi paga la tangente al funzionario per non avere i controlli. Ci straguadagna, comunque. E questo dobbiamo impedirlo. Dobbiamo rendere la corruzione svantaggiosa».
Lei era abituato ad i mali della Sicilia, ma a Roma che situazione ha trovato?
«Parlo per esperienza personale. Nell’ambito di alcune inchieste antimafia, mi sono occupato anche di pubblica amministrazione. C’erano degli appalti sospetti e sono andato a guardarmi le carte degli uffici, in un caso c’era di mezzo perfino un ministero. Eppure in quelle circostanze, leggendo i documenti, non ti accorgevi del marcio. Tutto sembrava a posto. A Roma è l’esatto contrario. Spesso quando prendi una carta in mano, capisci immediatamente che c’è dietro qualcosa che non quadra. Qui non riescono nemmeno a mettere a posto le carte».
Allora è più facile scoprire il marcio...
«No, sembrerà un paradosso ma non è così. Visto che le carte non sono mai in regola, non sai se dietro c’è un imbroglio, una corruzione, oppure si tratta di semplice sciatteria. È semplicente un sistema».
Lei cosa sta facendo?
«Le fornisco un dato che si commenta da solo. Prima che mi insediassi, a Roma c’erano circa 12 mila procedure di somma urgenza per l’affidamento di qualsiasi lavoro e servizio. Quelle a gara pubblica erano solo 8. Ripeto: 12 mila contro 8, non so se mi spiego. Personalmente ho bloccato tutte le procedure di somma urgenza, bisogna riportare trasparenza e soprattutto concorrenza. E mi sono imbattuto in casi incredibili...»
Tipo...
«Quello di un fax partito alle 17,48 del 24 dicembre per mettere a gara una consulenza da 300 mila euro. Gli interessati dovevano rispondere entro la mattina del 27 dicembre. Le date sembrano un po’ sospette, no? Poi c’è il caso di un dirigente che, dopo le mie insistenze per fare una gara pubblica, mi domanda: ”Ma devo pubblicarla sulla Gazzetta Ufficiale?”. Queste parole mi hanno fatto pensare che questo signore non aveva mai fatto un bando pubblico, solo trattative private».
Insomma l’ambiente romano è più inquinato di quello siciliano?
«Questo non lo so. Possiamo fare semmai una riflessione. Negli anni Settanta lo Stato ignorava quasi del tutto la mafia e dunque i due poteri convivevano. Poi è arrivato Giovanni Falcone e lo Stato ha iniziato a fare sul serio, si è messo di traverso e dunque c’è stato lo scontro. Adesso i mafiosi, di ogni genere e specie, hanno capito che lo Stato è meglio comprarlo che combatterlo. Con i soldi pensano di ottenere quello che vogliono, da qui il diffondersi della corruzione. È un esempio dello straordinario adattamento delle associazioni criminali. Cambiano atteggiamento a secondo dell’interlocutore che hanno davanti».
Dalle inchieste emerge una Roma assediata dal marcio. Lei ci sta mettendo la sua faccia, sicuro di farcela?
«Vedremo. Questa lavoro è complesso ma ha profili di fascino, sia nel bene che nel male sei a stretto contatto con i cittadini. Il tuo lavoro è quello di evitare che ci siano criticità, bisogna puntare sempre su prevenzione ed efficienza».
Leggendo gli atti amministrativi, parlando con i dirigenti, secondo lei a Roma c’è più mafia o più corruzione?
«Direi che qui c’è la mafia 4.1, quella del nuovo millennio. Proprio perchè punta a comprare pezzi dello Stato, deve partire dalla corruzione. Questo è il vero problema, Roma è molto più corrotta che mafiosa».
Ma Cosa nostra e ndrangheta ormai hanno ramificazioni in tutta Italia...
«Non può essere altrimenti. Il sistema criminale è obbligato ad espandersi. Negli anni Settanta la mafia non aveva bisogno di uscire dalla Sicilia, i boss facevano soldi a palate con la droga e gli appalti. Perchè andare fuori? Dopo tanti anni, i boss hanno prosciugato le risorse del meridione, non fanno più affari. Quanto possono guadagnare taglieggiando il meusaro della borgata? E dunque devono trovare nuovi spazi nelle grandi città per succhiare nuova ricchezza e comprare lo Stato. O si espandono o muoiono».
Sempre parlando per esperienza personale, è peggio il neofascita Carminati o Brusca?
«Una bella lotta. Direi però che Brusca ha inquinato ben poco, era già inserito in un ambiente e lui ha continuato quello che altri avevano già portato avanti. Tutto il contrario di Carminati, che ha sviluppato rapporti, corrotto amministratori e politici, creando un nuovo sistema criminale».
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