Sul caso sollevato dal secondo atto dell’inchiesta su «Mafia Capitale» che ha portato all’arresto anche di alcuni politici, riceviamo e pubblichiamo un intervento di Piergiorgio Morosini, presidente della commissione riforme del Csm, già gip presso il Tribunale di Palermo. Ha pubblicato «Il gotha di Cosa Nostra» e «Attentato alla giustizia».
«Ci stiamo mangiando Roma». Affari, politica e mafia. Un solo copione. È il secondo atto dell’inchiesta «Mafia Capitale». Arrestati quattro consiglieri comunali e un consigliere regionale. Indagato un sottosegretario del governo. Come dire, istituzioni fragili e estrema difficoltà dei partiti a selezionare il personale politico.
Tutto, a una settimana dalle feroci polemiche sulla «lista degli impresentabili», pubblicata dalla commissione antimafia a due giorni dalle elezioni regionali.
Qualcuno aveva gridato alla «inaccettabile interferenza»; anche se l’indicazione dei candidati «rinviati a giudizio», voluta da tutti i partiti sin dal 2007, in fondo è uno degli antidoti alla mala-politica. Ma, al netto della conflittualità “pre” e post elettorale, le due vicende pongono questioni spinose. Il test di «affidabilità» del personale politico è una esclusiva del processo penale? L’incensurato merita comunque il bollino blu? Certi “filtri” non dovrebbero spettare prevalentemente ai partiti? Personalmente credo di sì. L’operazione, però, non è affatto agevole.
Sulla selezione dei politici «degni», i partiti hanno abdicato da tempo. «Delegano» alla magistratura l’individuazione dei «sintomi della inaffidabilità» e le «procedure» per la loro verifica. Non accade solo con la «black list» dell’antimafia, ma con la stessa legge Severino.
Politici già «chiacchierati» finiscono «fuori gioco» solo perché arriva una condanna in primo grado. O quando qualcuno li arresta. Insomma, i partiti «stanno alla finestra» sino all’atto del giudice, soprattutto quando certi «personaggi discussi» drenano un ampio consenso elettorale. A volte, i partiti affidano alle procure persino la verifica sulla regolarità delle «primarie».
È accaduto nel 2102 a Palermo e di recente a Genova, a riprova della «delega piena» alla magistratura in tema di etica della politica.
Procure e tribunali sono molto esposti, dunque. E si sa, quando si toccano interessi politici, dalla «delega» alla accusa ai giudici di «impropria invasione di campo» il passo è breve. Certo, non sono mancati «eccessi di attenzione» verso ambienti istituzionali. Ma spesso il riflesso politico della iniziativa giudiziaria è del tutto involontario.
Un politico, neppure indagato, rischia di essere segnato da una inchiesta a carico di altri soggetti. Basta la pubblicazione di stralci di intercettazione da cui emergano, ad esempio, i suoi contatti con personaggi discutibili o «favoritismi» per qualche familiare.
La successiva ondata di indignazione popolare può indurre il politico alle dimissioni o al ritiro di una candidatura. A volte senza neppure il tempo di dimostrare che la notizia è stata deformata o strumentalizzata dalla stampa, con evidenti rischi per le dinamiche democratiche.
Per evitare «improprie invasioni di campo», parlamento, magistratura e stampa devono fare la loro parte. Non con la drastica riduzione per legge dell’uso delle intercettazioni, come ancora parte del mondo politico auspica.
Anche la citata inchiesta capitolina ribadisce, infatti, quanto siano decisive nella lotta al crimine. E non si può neppure mettere il «bavaglio» a una stampa che in questi anni ha svelato gli scandali del potere, rendendo tanti cittadini più consapevoli.
Per evitare «eccessi» nell’esercizio dei differenti ruoli istituzionali, il punto di equilibrio sta nella divulgazione del solo materiale di rilevanza probatoria. Cioè quello che si trova nei provvedimenti del giudice o del pubblico ministero.
Il magistrato, insomma, avrebbe la responsabilità della «scrematura» sulle intercettazioni pubblicabili. I dati di un qualche valore etico-politico andrebbero utilizzati solo se provano il reato. Ciò che sta fuori da questo perimetro esula dalle funzioni giudiziarie.
Travalicare questo confine costituirebbe una indebita supplenza nelle dinamiche di altre istituzioni. E, prevedibilmente, porterebbe il parlamento a privare la magistratura di strumenti necessari per scoprire la criminalità del potere. Non possiamo permettercelo. Lo dimostra «mafia capitale».
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