Procuratore Agueci, come la spieghiamo la mafia di oggi a uno che non ne sa proprio niente niente niente? «Tommaso Buscetta la definì come l’antiStato. Io aggiungo a questa valutazione, proveniente da un collaboratore di giustizia tra i più autorevoli di sempre, che è un’organizzazione criminale che storicamente prospera grazie all’assenza dello Stato. Quanto più lo Stato, le istituzioni sono assenti, tanto più la mafia si sviluppa. Quando invece avviene il contrario, quando cioè lo Stato c’è, Cosa nostra segna battute a vuoto». Leonardo Agueci, dal 2009 procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, è consapevole dei mutamenti in corso all’interno dell’organizzazione, colpita in tutti i modi e costretta a cambiare forma e pelle, per resistere anche agli anticorpi della società civile, rappresentati dai ragazzi delle scuole e dalle associazioni, che scendono in campo in tutta Italia. Ma al tempo stesso il pm che coordina le indagini sulla zona centro-orientale del capoluogo dell’Isola mette in guardia da chi usa «servirsi dell’antimafia in modo strumentale, come una volta ci si serviva della mafia». La mafia stato nello Stato, potere alternativo. Ancor oggi è così? «Sì, purtroppo. Un esempio per tutti è la questione dell’assegnazione delle case allo Zen: se avvenisse secondo le regole, con efficienza, garantendo il rispetto delle graduatorie e tempi congrui, non ci sarebbe spazio per il “potere alternativo” rappresentato dalla mafia, che invece di fatto si sostituisce alla pubblica amministrazione e gestisce tutto». La reazione partì ormai 35 anni fa dai palazzi di giustizia. Perché si contavano i caduti. E poi se ne sono contati ancora. Però qualcosa è cambiato. «Non vorrei esagerare con le citazioni, ma ci fu chi disse che, visto che la mafia è criminalità organizzata, per combatterla bisogna organizzarsi. La reazione giudiziaria fu indotta soprattutto dai gravissimi fatti di sangue del 1979-’80, gli omicidi di giornalisti, politici, poliziotti, carabinieri, magistrati. Il pool nacque per cercare di porre un argine a quell’assalto e poi è di fatto uscito dal palazzo, ha assunto connotati unificanti verso tutta la società civile». Lo Stato e la pubblica amministrazione non riescono però a mostrarsi efficienti. «E no. Proprio no. Mi viene in mente la pessima storia dell’Himera 2, il viadotto fuori uso sulla Palermo-Catania: a un mese e mezzo dal cedimento non partono ancora neppure i progetti per riaprire l’autostrada. Nell’84-’85, prima della celebrazione del maxiprocesso, fu costruita in pochissimi mesi l’aula bunker, modello di architettura giudiziaria, che ancor oggi ospita processi di tutti i tipi. Se lo Stato vuole, riesce a fare le cose». Ovviamente Cosa nostra non è solo il racket delle case allo Zen. «Quello è solo un esempio. Ma rappresenta il controllo capillare del territorio, contro il quale occorre la guerra di trincea, la conquista metro per metro. Non solo sul piano repressivo, ma anche sull’aspetto costruttivo, dell’educazione delle giovani generazioni». Le intimidazioni non finiscono mai. Francesco Massaro denuncia il tentativo di farlo piegare. Per un altro verso si assiste al fenomeno definito della camorrizzazione, la crescente violenza di strada. «I cani sciolti ci sono sempre stati e il fenomeno, a parte la sparatoria allo Zen, la domenica delle Palme, non ha fatto emergere fatti eclatanti. Ma c’è da fare anche i conti con l’indubitabile minor carisma dei nuovi boss, rispetto ai loro predecessori». Mafia e politica, capitolo sempre aperto. «Ai politici con pochi scrupoli interessa l’appoggio di chi dispone di cospicui pacchetti di voti. Ma oggi l’interesse è minore o comunque meno visibile, perché l’apporto elettorale che l’organizzazione criminale è in grado di dare è molto meno consistente. I contatti oggi ci sono, ma a un livello sommerso e più difficile da accertare. Nelle realtà della provincia la situazione è invece diversa, l’interlocuzione viene cercata ancora». Non ci sono più, però, Lima e Ciancimino, rappresentanti della mafia dentro i partiti. «Ci sono indagini in corso su più politici. Altro non posso dire. L’esperienza è servita a qualcosa, le indagini hanno avuto effetti deterrenti. Ma non su tutti. La tentazione per qualcuno c’è sempre». Accanto a questo, c’è l’esatto opposto: l’antimafia di maniera, delle mille parti civili, degli imprenditori legalitari con qualche scheletro negli armadi, di altri che chiedono il pizzo... «Nelle scuole e nelle chiese, di legalità e di antimafia si deve parlare: trent’anni fa non accadeva. Oggi invece in altri ambiti se ne parla troppo, in qualche caso a sproposito, cosa che depotenzia il valore del messaggio da diffondere. Io sono felice se le istituzioni si rivolgono a noi, ma quel che ci viene raccontato non è la verità rivelata. Che si presenti il presidente della Regione a denunciarci un fatto, va bene. Ma non per questo la politica acquisisce una sorta di salvacondotto. Siamo molto attenti al fenomeno della corruzione, che coinvolge anche la burocrazia».