PALERMO. Il boss trapanese Matteo Messina Denaro sarebbe arrivato a metterlo per iscritto. E a due lettere avrebbe affidato l'ordine di eliminare il pm Nino Di Matteo, pubblica accusa al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. «Si è spinto troppo», avrebbe fatto sapere ai padrini palermitani incaricati dell'attentato. Ma del progetto il superlatitante di Castelvetrano, che ormai avrebbe conquistato la leadership incontrastata di Cosa nostra, sarebbe stato solo il braccio armato. Perchè a volere la morte del magistrato sarebbero stati «apparati dello Stato».
Come, oltre 20 anni fa, fu per l'assassinio dei giudici Falcone e Borsellino. Il suggestivo racconto viene da un pentito, Vito Galatolo, esponente del clan dell'Acquasanta, una famiglia che conta nell'organigramma mafioso. Contattato dal boss Girolamo Biondino, capomandamento di Resuttana con un pedigree criminale di tutto rispetto, il fratello è stato il fedelissimo autista di Totò Riina, l'ex boss seppe del progetto di attentato al pm. Biondino, che teneva i contatti con Messina Denaro, avrebbe mostrato i pizzini del padrino trapanese che, pur chiedendo ai palermitani, se fossero disponibili a un simile passo, avrebbe fatto capire loro che si trattava di una cosa importante e urgente. Galatolo e gli altri mafiosi coinvolti, Alessandro D'Ambrogio e Vincenzo Graziano, seppure scettici, immaginando le conseguenze dirompenti del gesto, avrebbero accettato.
Nonostante Messina Denaro avesse fatto sapere che l'artificiere l'avrebbe portato lui e che non era un uomo di Cosa nostra. Elemento che fa dire al pentito che a volere la strage sarebbero non meglio identificati apparati dello Stato e che il movente sarebbe il processo sulla trattativa, inviso a esponenti delle istituzioni. Una trama che ricorda quella riferita da altri collaboratori circa l'eccidio di via D'Amelio, in cui morì il giudice Paolo Borsellino: anche allora alla fase preparatoria dell'esplosivo, riferisce il pentito Gaspare Spatuzza, partecipò un «esperto» esterno a Cosa nostra. Ma i dubbi sul racconto di Galatolo non sono pochi: in Procura c'è chi osserva che Messina Denaro, restio a scrivere per sua natura, difficilmente avrebbe usato i pizzini per commissionare una strage. Inoltre il tritolo, acquistato con una colletta in cui Galatolo avrebbe messo 360mila euro e gli altri capimafia appena 140, non è mai stato trovato. Circostanza che fa ipotizzare ad alcuni investigatori che Biondino potrebbe avere organizzato una vera e propria truffa «spendendo» il nome del latitante di Castelvetrano. Inoltre, il progetto, pensato nel 2012, non sarebbe mai stato realizzato perchè tra il 2013 e il 2014 tutti i boss coinvolti furono arrestati. Nel lungo racconto di Galatolo, che attribuisce a Messina Denaro rassicurazioni ai boss sulle coperture di cui avrebbero goduto nel caso dell'eliminazione del pm, non mancano riferimenti a personaggi delle istituzioni che avrebbero avuto rapporti con la mafia.
Il pentito ne cita tre: l'ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera, che sarebbe stato al soldo del clan Madonia, l'ex numero tre del Sisde Bruno Contrada, poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, e Giovanni Aiello, detto «il mostro», agente di polizia vicino ai Servizi coinvolto nelle indagini su diversi omicidi mai risolti che vedrebbero la partecipazione di apparati dello Stato. «In fondo Pipitone (la strada in cui i Galatolo vivevano ndr) - ha detto il pentito - erano di casa».
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