CATANIA. «Sono molto stanco, ne ho viste troppe in quest'ultimo anno. Mi devo solo riposare». Le ultime botte il sedicenne Said le ha prese una settimana fa, quando è salito sul barcone della morte: «volevano imbarcare 1.200 persone, ci urlavano di sbrigarci e ci picchiavano per farci salire. Alla fine era stracolmo e si sono fermati ad 800». Ora che è tutto passato, ora che tutti i suoi compagni di viaggio sono morti, Said spera solo di poter essere lasciato in pace. Said è uno dei minori sopravvissuti, un somalo che ha soli 16 anni e già tanto dolore nell'anima. Come Nassir, un diciassettenne del Bangladesh che è uno dei quattro minori sopravvissuti. Sua sorella, invece, non ce l'ha fatta. Nassir è partito due anni fa dal suo paese, è arrivato in Libia e lì ha lavorato come meccanico. Il viaggio gli è costato mille dinari, 900 dollari per un posto sul ponte. Quei soldi gli hanno salvato la vita. «Eravamo una trentina, non di più - ha raccontato - gli altri erano tutti dentro, chiusi. Quando si è avvicinata la nave l'uomo che era al timone ha fatto una manovra sbagliata ed è andato a sbattere contro il mercantile. Noi ci siamo spostati di corsa verso la prua e la barca è affondata in cinque minuti». Secondo il giovane il comandante ha sbagliato per un motivo preciso: «ha bevuto vino e fumato spinelli dalla partenza». Quando c'è stato l'impatto è finito in mare ed è riuscito a salvarsi aggrappandosi ad un bidone. «Ho sentito le urla di aiuto di chi era stato chiuso nella stiva, siamo rimasti in mare mezzora fino a quando dal mercantile ci hanno lanciato una fune e ci hanno salvato». Said quei momenti li ricorda in modo meno preciso: «l'allarme è scattato verso le 22 quando abbiamo visto le luci del mercantile. In molti si sono mossi, la barca si è inclinata sul lato e si è capovolta. Poi non ricordo più nulla e qualcuno mi ha salvato». I ricordi dei minori, che si trovano in una struttura protetta a Mascalucia, a pochi chilometri da Catania, si intrecciano con quelli degli altri sopravvissuti trasferiti nella notte nel Cara di Mineo. «Ero con mio fratello - racconta un ragazzo del Mali tra le lacrime, continuando a chiedere quando avrà i documenti per lasciarsi l'incubo alle spalle - all'improvviso il barcone si è rovesciato, ho cercato di abbracciarlo, ma non sono riuscito a tenerlo». Racconta anche delle «botte ricevute dai trafficanti» in Libia e sulla barca. Tra loro anche l'uomo della Costa d'Avorio che era stato ricoverato in ospedale e dimesso la stessa notte dell'arrivo a Catania: «Ho visto tante donne e bambini che viaggiavano nella stiva della nave, che sono stati inghiottiti dal mare». Un altro parla dell'«urto con il mercantile dei soccorritori. «Poi - aggiunge - ci siamo capovolti e siamo caduti in mare: mi sono salvato nuotando tra i corpi e tenendomi a un pezzo di legno». Sulle cifre dei migranti a bordo tutti concordano: «Ci avevano detto che saremmo stati circa 800, ma eravamo di più, oltre novecento e la la maggior parte era la prima volta che vedeva il mare il vita sua». Anche Said ha visto per la prima volta il mare quando è salito su quel maledetto barcone. Said c'è arrivato da Raso, la sua città natale in Somalia dove viveva con i suoi 3 fratelli e le 5 sorelle. I genitori, per tentare di dargli una vita migliore, hanno deciso di farlo partire: il lungo viaggio inizia nell'estate dell'anno scorso, quando Said attraversa il deserto del Sudan assieme ad altre centinaia di disperati. Il racconto del suo ingresso in Libia, gli operatori di Save the Children che hanno raccolto la sua testimonianza lo hanno sentito mille altre volte, da quelli come Said che hanno già vissuto quel dolore. «Ci hanno incarcerato e siamo rimasti prigionieri per nove mesi, fino a quando la mia famiglia non ha trovato i soldi da dare ai trafficanti. Quei giorni li ricordo come fosse oggi - dice Said - c'erano con me altri ragazzi. Ci trattavano male, non ci davano da mangiare e se stavamo male non ci curavano. Ho visto molti di loro morire davanti a me». Dopo nove mesi Said riesce finalmente a partire per Tripoli. E una volta in città resta nascosto per 6 giorni. «Avevo paura che mi arrestassero di nuovo». Poi arriva la sera del 16 aprile ed il suo turno per attraversare quel mare nero. «I trafficanti ci hanno preso attorno alle 23 e fatto salire prima su un gommone e poi sul peschereccio, che era già in mare». Il barcone infernale, quello a tre livelli, era lì ad attenderlo. Con centinaia di migranti già a bordo stipati come sardine. «Non riuscivamo neanche a muoverci, avevamo poco cibo e poca acqua, quelli che erano nella stiva sono stati chiusi a chiave». E sono tutti morti. Con lui, invece, il destino è stato più clemente. «Ora voglio solo arrivare in Norvegia - sospira Said - e spero di non dovermi rivolgere di nuovo ai trafficanti».