PALERMO. «Sostenere che il 90 per cento dei commercianti del “salotto buono” della città paga il pizzo mi sembra esagerato, ma di contro bisogna rilevare che in questa area commerciale, il numero di chi ammette di aver pagato gli esattori della mafia è molto più basso rispetto ad altre zone». Il presidente provinciale di Confimprese, Giovanni Felice, torna sulla questione sollevata pochi giorni fa da Confindustria Palermo, secondo cui una ventina di attività commerciali del centro storico, segnalate in un «pizzino» trovato addosso a un esattore del pizzo, continuerebbero a pagare e a mostrare reticenza. Presidente, quello che ha detto Confindustria merita una profonda riflessione. «Certamente, oramai quasi la metà dei commercianti, quando viene convocata dalle Forze dell’ordine, anche se non ha denunciato, ammette di avere pagato. Il fatto che in quella zona è solo il dieci per cento ad ammettere di avere ceduto al pizzo rappresenta sicuramente un dato che deve fare riflettere». Nel senso che sono davvero pochi? «Sì, è una percentuale troppo bassa. E il compito costante di tutto il fronte dell’associazionismo, dell’antiracket e dello Stato è quello di mettere tutte le forze in campo per far aumentare le denunce e sconfiggere il fenomeno del pizzo». Allora perché queste polemiche attorno alle dichiarazioni degli industriali? «Il campione preso in considerazione dagli industriali è sicuramente poco attendibile, per almeno due motivi. Il primo riguarda il numero esiguo degli operatori coinvolti in quella zona. Consideriamo pure che si tratta di soggetti che, avendo accettato di pagare, hanno comunque raggiunto un accordo, hanno fatto un patto con gli estortori, e quindi non deve meravigliare più di tanto l’omertà mostrata». E l’altra riflessione? «Esiste una netta differenza tra la realtà che stiamo vivendo e ciò che viene percepito dai commercianti. Oggi, la magistratura e le forze dell’ordine, nonostante non sempre le vittime del pizzo collaborano, infliggono un colpo dietro l’altro a Cosa nostra e, in particolare, ai taglieggiatori. Eppure c’è ancora chi, prima di avviare un’attività, cerca il referente territoriale mafioso per “mettersi a posto”, sottoscrivendo un patto infame con i malavitosi, che segna la società civile e un’intera categoria imprenditoriale». Perché i commercianti preferiscono fare patti con la malavita invece di denunciare e liberarsi da questa imposizione, che logora ed erode le imprese? «Bisogna convincerli che non pagare è la cosa più giusta. Perché, oltre all’evidente questione morale, esiste un motivo pratico e di convenienza per cui è inutile alimentare il pizzo». Lo spieghi ai suoi colleghi... «Sino a qualche tempo fa, la manovalanza criminale che si presentava davanti ai commercianti sosteneva di controllare il territorio e giustificava la ragione del pagamento come una sorta di assicurazione “casco”. È del tutto evidente, invece, che oggi Cosa nostra, grazie all’impegno della magistratura e delle Forze dell’ordine, non è in grado di garantire nulla a chicchessia, nemmeno a se stessa. Rispetto al passato, oggi le vittime delle estorsioni godono di un sistema di protezione legale e di accompagnamento lungo tutto il percorso che va dalla denuncia ai processi penali». Insomma, questo cordone protettivo non lascia alibi a chi non collabora? «Ritengo di sì, non c’è alcuna giustificazione per chi non denuncia o non ammette di avere pagato. Oltre alla magistratura e alle forze dell’ordine, esiste un tessuto associativo ed istituzionale. Penso allo sportello della legalità presso la Camera di commercio, che è in grado di accompagnare e sostenere chiunque decida di denunciare, perché non vuole più foraggiare il sistema malavitoso». Quindi abbiamo solo una distinzione tra chi paga e chi denuncia? «No, esiste un’ampia maggioranza che decide di non pagare in silenzio. Un altro fenomeno che induce all’ottimismo è il fatto che prima, all’atto intimidatorio della colla nei lucchetti, si reagiva chiamando il fabbro, oggi quasi sempre si denuncia». Ma se alla forza di dire no al pizzo, anche se in silenzio, si associasse anche la denuncia? «Resta alto il fronte di chi non si fida delle istituzioni. Non c’è dubbio che i casi di corruzione e infedeltà nella pubblica amministrazione non aiutano ad affermare il primato dello Stato. A questo bisogna aggiungere che i percorsi tortuosi della burocrazia per ottenere le autorizzazioni, la difficoltà di accedere ai finanziamenti, la gravosa pressione fiscale fanno sì che gli imprenditori non vedano lo Stato come un amico di cui fidarsi». E cosa deve fare lo Stato per risultare “simpatico”, nella speranza che poi arrivino le denunce? «Semplificare le regole, andare in deroga ai parametri di Basilea per favorire l’accesso al credito, abbassare la pressione fiscale e ridurre gli sprechi. Ritengo che questi elementi siano fondamentali per la nascita di un nuovo patto sociale. Infine, bisogna inserire il reato di favoreggiamento tra i quelli che prevedono la revoca dell’autorizzazione commerciale».