PALERMO. Ha visto e rivisto «Il favoloso mondo di Amélie» ma per lei è più complicato «rimettere a posto le cose», come riusciva alla camerierina di Montmartre. Marzia Sabella nel suo libro «Nostro onore» (Einaudi), scritto con la giornalista Serena Uccello, ha spiegato il (meno favoloso) mondo dei magistrati che ogni giorno lottano dentro quel palazzaccio di veleni che è il Tribunale di Palermo. Ci ha mostrato il quotidiano backstage. Lì la Sabella non incontra «l’uomo di vetro» ma uomini della cattiveria più cattiva, non s’imbatte in fototessere ma in foto segnaletiche. Non spezza la crosta della crème brulée ma l’omertà della gente. Risultato: un libro in cui si ride e si piange, come in un film di Chaplin. Il patto iniziale è: vietate definizioni tipo «unica donna» contro la mafia. Oppure: «unica donna che ha partecipato alla cattura di Provenzano». Insopportabili: non conosce genere la lotta alla mafia. «Esaltare il ruolo della donna è un pregiudizio all’incontrario», dice, giustamente, la Sabella, magistrato che per anni ha fatto parte della Direzione distrettuale antimafia e che detesta le autocelebrazioni. Si racconta: notaio mancato, poi magistrato (per caso), seppellita dai fascicoli, i primi processi contro gli orchi di Ballarò, la vita sotto scorta e gli uomini della scorta che diventano amici, l’Atr ammarato a Palermo, la cattura di Provenzano nel 2006, i suoi pensieri e le sue azioni sguinzagliati sulle tracce di Messina Denaro. Il computer sempre acceso, come la sigaretta. Lei centrifuga ironia e leggerezza, scarta pesantezza e retorica. E qui, sulla retorica dell’antimafia, il patto iniziale si fa d’acciaio, attorno a un pensiero condiviso: è, la retorica dell’antimafia - virus che ha infestato istituzioni, politica, giornalismo - intollerabile, e per di più dannosa. È, la parola legalità, pronunciata ma non praticata. Sono, certi nomi, lasciapassare di integrità per chi integrità non ha. «Legalità e antimafia - dice Marzia Sabella - sono parole talmente abusate che si rischia di svuotarle di contenuto. La legalità è una cosa seria, specie se la platea è giovane e ne ha le scatole piene di quella sbandierata, un cavallo di Troia per vestire ciò che legale non è».
Come si insegna ai ragazzi la legalità senza retorica?
«Spesso parlare di legalità per i ragazzi è solo un modo per non far lezione: e, per noi, una sconfitta. Meglio l’utilizzo di un linguaggio diverso, non da vecchi tromboni. Meglio discutere di libertà, che è un aspetto della legalità, un concetto più vicino ai giovani. I giovani vogliono sentirsi più liberi, non legalizzati».
L’ironia pervade il suo libro...
«Raccontando episodi di una certa gravità, ho preferito utilizzare un tono il più lieve possibile. L’ironia ti aiuta a metabolizzare certe situazioni, a sopportare aspetti del lavoro, altrimenti non ce la faresti. Chiedere la condanna di un essere umano, per quanto colpevole di efferatezze, non ti lascia indifferente. Per convivere con tutto questo, bisogna sdrammatizzare: l’ironia è una risorsa».
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