ROMA. È «inquietante che il Capo dello Stato sia diventato il bersaglio di questa variegata compagnia di giro composta da professionisti dello spettacolo, del mondo editoriale e anche da magistrati che pensano di essere depositari ed esclusivi di una tragica e nello stesso tempo esaltante stagione della vita della nostra Repubblica». Giuseppe di Lello, ex giudice istruttore del pool di Giovanni Falcone, commenta così il processo sulla trattativa Stato-mafia, in un'intervista alla Stampa. «Più che un processo quello che si sta celebrando», dice l'ex braccio destro di Falcone, «è una ricostruzione giornalistica che pone sullo stesso palcoscenico come autori della ricostruzione degli eventi e delle responsabilità, esponenti politici di Forza Italia, della Dc, del Psi. Sembra una commedia pirandelliana».
Secondo Di Lello, il processo «ha un impianto giornalistico che dal punto di vista tecnico giuridico non regge». «Se la tesi di fondo è che le stragi» «sono state provocate dalla trattativa, perchè gli imputati non rispondono del reato di strage? Se addirittura», continua l'ex giudice, «Nicola Mancino, era il terminale di questa trattativa perchè viene processato solo per falsa testimonianza?» Torna sulla lettera di d'Ambrosio: Napolitano, dice Di Lello, «ha già fatto sapere di non avere altro d'aggiungere», ma con la sua deposizione al processo «il danno è stato fatto perchè il coinvolgimento nel processo del Capo dello Stato è stato interpretato dal popolo antimafia duro e puro come la conferma che Napolitano sia depositario di tutti i segreti della trattativa e, di conseguenza, delle stragi»
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