L’ultimo dribbling, quello con il cancro che lo scorso maggio aveva confessato di avere, non gli è riuscito. Vincenzo D’Amico è morto a Roma, era nato a Latina, aveva 68 anni. Stella della Lazio del primo scudetto, quello che la banda Maestrelli vinse nel 1974, D’Amico di quella squadra è stato uno dei simboli. Vincenzino, come lo chiamavano tutti e come lo ricorda con commozione anche la società biancoceleste («la nostra leggenda»), il fantasista di quel miracolo che portò la Lazio a laurearsi campione d’Italia. D’Amico non aveva ancora vent’anni. Geniale e abile in campo, era stimato anche fuori dal campo per i suoi modi sempre gentili e signorili. Quando giocava non amava schemi e tattiche, ma nella vita era rispettoso nei confronti di chiunque. Una scomparsa che si aggiunge a quella di tanti altri eori di quello scudetto, da Re Cecconi all’allenatore Tommaso Maestrelli, a Frustalupi, Chinaglia, Pulici, Facco, Wilson. La partita con la malattia non l’ha vinta: ricoverato da alcuni giorni in ospedale, le sue condizioni si sono aggravate rapidamente. Con pudore aveva raccontato della propria malattia, non nascondendo la paura né la volontà di sconfiggerla. «Mi dicono che i malati oncologici tirano fuori forze inaspettate! Io ci sto provando!»: così aveva scritto in un post sui social lo scorso 6 maggio, confermando di aver intrapreso la difficile battaglia con il tumore. Quelle parole avevano raccolto una lunghissima serie di di incoraggiamento da parte dei suoi tifosi ed amici. La confidenza era in realtà riservata ai suoi amici di Facebook ed era poi stata rilanciata da alcuni di questi sul web: «È tutto vero», aveva però confermato lui stesso. Era il suo stile. Una volta, ad esempio, Chinaglia gli diede un calcio nel sedere per metterlo in riga, ma D’Amico anche a distanza di anni sminuì l’episodio: «Ma no, fu solo un incitamento - disse per poi difendere l’amico -. Di Chinaglia la cosa che più mi fa male è che ne parlino senza averlo conosciuto. Giorgio aveva solo un problema: doveva fare gol, altrimenti non era contento. Era una persona di una bontà fuori dal comune». Forse anche per questo D’Amico era tanto amato dai colleghi, dai tifosi e rispettato dagli avversari. Solo una volta litigò pubblicamente. Il ct della nazionale Enzo Bearzot lo aveva convocato soltanto per una partita con la maglia azzurra, ma non lo fece neanche scendere in campo. D’Amico ci rimase malissimo e protestò pubblicamente per non avere mai avuto una spiegazione per quella esclusione che riteneva una ingiustizia. I suoi capolavori sportivi sono due: la stagione da protagonista nella Lazio campione d’Italia nel 1974 e la tripletta all’Olimpico contro il Varese di Eugenio Fascetti grazie alla quale salvò la squadra dalla serie C nel 1982. L’anno prima, suo malgrado e tra le lacrime, era stato costretto ad andare a giocare nel Torino, unica parentesi nella carriera da calciatore con la Lazio, per consentire alla società di pagare i debiti. Con i colori biancocelesti ha giocato per 16 anni, dal 1971 al 1986 collezionando 336 presenze e 49 gol. Per la Lazio era e resta una bandiera, in tanti ora ricordano il loro «Vincenzino», così come la curva lo aveva voluto sostenere con un grande striscione dopo che l’ex campione aveva annunciato di essere malato. Dopo l’esperienza calcistica, arrivò quella televisiva. Si reinventò telecronista, commentatore apprezzato nella sua esperienza in Rai. La notizia della sua morte ha fatto rapidamente il giro sui social: tifosi laziali ma anche avversari sportivi o semplici appassionati di calcio hanno voluto rivolgergli il loro saluto. In tanti hanno postato le foto dello scudetto laziale, ma spesso c’era anche una vecchia foto dove si vedono D’Amico sorridente e seduto a bordo campo ai piedi di Carlo Ancelotti e Roberto Pruzzo che sono in panchina con aria divertita. Se be va un altro pezzo della storia del calcio, il golden boy di quella Lazio magica.