TRAPANI. «Voglio lavorare». Invece per 10 anni sarebbe stata sottolutilizzata o avrebbe svolto mansioni di poco o di alcun conto. Addirittura nel corso di un intero anno solare sarebbe stata costretta ad una sorta di inattività forzata: 8 ore in tutto. Così una dipendente del Museo "Pepoli" di Trapani sostenendo di avere subìto mobbing per oltre dieci anni, si è rivolta al Giudice del Lavoro chiedendo all' amministrazione e alla direzione dell' Istituzione culturale il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali sofferti e quantificati in 190.000 euro. La sussistenza dello "stress occupazionale" sarebbe stata documentata dall' Ospedale Maggiore policlinico Mangiagalli di Milano, Dipartimento di Medicina del Lavoro, dove la dipendente del Museo è stata seguita dal 2007 fino al 2015. «L' unica colpa della nostra assistita, quella di aver richiesto più volte ai dirigenti d' Ufficio l' integrazione del proprio carico di lavoro con mansioni inerenti alla propria qualifica», affermano gli avvocati Nino Sugamele ed Elena Ferlito, che hanno predisposto il ricorso dinanzi al Giudice del Lavoro.
In servizio con le mansioni di "istruttore direttivo" (un tempo si sarebbe definita "impiegata di concetto"), la dipendente del Museo sarebbe stata relegata a mansioni, a suo dire, inutili (rilevazione delle presenze, dei ritardi e dei permessi che il sistema informatico della lettura dei badge faceva in automatico) e di basso profilo (trasportare da una stanza all' altra i prospetti delle presenze e tenere l' indirizzario cartaceo nell' epoca delle comunicazioni digitali).
Nel 2010, finalmente, le sarebbero state assegnate mansioni adeguate al suo profilo professionale, che, però, con varie disposizioni dirigenziali, dal 2014, sarebbero state progressivamente revocate fino a costringerla ad inattività forzata: appena otto ore di lavoro nel corso di un intero anno solare.
L' incombenza che sostanzialmente svolge negli ultimi tre anni sarebbe quella di predisporre le lettere di comunicazione alla Direzione delle presenze dei volontari che svolgono attività nel Museo.
«L' impiegata, piuttosto che trastullarsi nel dolce far nulla - aggiungono gli avvocati Nino Suga mele ed Elena Ferlito - ha continuato a chiedere strenuamente ai dirigenti del Museo di poter lavorare e di aver attribuite mansioni che le competessero. Richieste che non hanno sortito alcun effetto.
Anzi, le sono state proposte man sioni inferiori, sebbene ad altri dipendenti avessero assegnato quelle proprie di un istruttore direttivo».
La lavoratrice sostiene, inoltre, di essere stata accusata di aver creato disservizi e minacciata di procedimenti disciplinari, lasciata per alcuni anni senza un PC funzionante ed obbligata a sottoporsi alle visite per la prevenzione delle malattia professionali in orario extra -lavorativo e senza ottenere la retribuzione straordinaria.
«Da quando ho assunto io la direzione del Museo - replica l' architetto Luigi Biondo - ritenevo che la situazione si fosse normalizzata e mi risulta che la lavoratrice fa cose utili. A questo punto provvederemo a revisionare gli incarichi e se dovessero emergere delle storture, provvederemo senz' altro ad adeguare le sue mansioni». A breve, però, dovrebbe iniziare la causa davanti al Giudice del Lavo.
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