«Il nostro compito è quello di essere presenti nel momento degli sbarchi e informare i migranti sui loro diritti, sulle procedure da effettuare e individuare casi vulnerabili. A gestire i centri invece sono le autorità locali». Dopo l'intervento del Cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, che ha chiesto cosa fa l'Onu per i migranti, a spiegare i compiti dell’Unhcr nel momento dell’accoglienza dei rifugiati dopo il loro arrivo in Europa è Barbara Molinario, funzionario dell’ufficio di pubblica informazione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), cioè il braccio operativo dell’Onu nella gestione dell’accoglienza dei rifugiati. Un impegno che varia di Paese in Paese. «In Italia, in particolare, i nostri operatori danno le informazioni base ai rifugiati sulla località in cui si trovano e su cosa succederà loro nei momenti successivi allo sbarco, ma anche informazioni più tecniche e legali sui loro diritti e sui loro doveri essendo arrivati in Italia come persone che vogliono cercare protezione».
Cosa fa concretamente l’Onu attraverso Unhcr per chi scappa dall’Africa e affronta il viaggio della speranza nel Mediterraneo?
«L’Ufficio in Italia è competente per il Sud Europa e copre la Grecia, Malta, Cipro, l'Albania, il Portogallo e la Spagna. Molte delle persone che arrivano via mare infatti sono in fuga da guerre e persecuzioni e per questo sono sotto il nostro mandato. Dal 2006 insieme ad altri partner siamo presenti nei luoghi di sbarco. I nostri operatori accolgono i migranti che arrivano dal mare e danno loro tutte le informazioni necessarie sul diritto d’asilo e sulle procedure da seguire in Italia. Questo è un ruolo fondamentale perché le persone quando arrivano sono spaesate. Purtroppo sempre più spesso a dovere affrontare situazioni in cui arrivano persone con forti trauma legati al viaggio, superstiti dei naufragi o persone che hanno perso i familiari. Sono casi vulnerabili che poi segnaliamo sempre alle autorità per aiutare queste persone».
Come cambia il vostro intervento negli altri Paesi europei?
«In Grecia il flusso è aumentato. Inoltre, lì il 70 per cento di persone che arrivano sono in fuga dalla Siria, dall’Afghanistan e dall’Iraq. Quindi è più probabile trovare chi necessita di protezione internazionale. In questo caso, come in Italia, ci occupiamo di supportare le autorità locali nella gestione dei flussi ma abbiamo anche un ruolo pratico di distribuzione di generi di prima necessità, come coperte e acqua. Un impegno necessario perché le autorità greche erano impreparate ad affrontare l’arrivo di 140mila persone, mentre in Italia finora ne sono arrivate 100mila. Negli altri Paesi europei non ci occupiamo di distribuzioni di generi non alimentari, perché è un compito delle autorità preposte. In altri Paesi, l’Unhcr si occupa anche della gestione dei campi di rifugiati, come in Giordania. In Europa non abbiamo questo ruolo».
Per quale motivo?
«Le strutture di accoglienza e dei campi di rifugiati è affidata ai governi. La responsabilità è dei vari Paesi. In Italia, ad esempio, è del ministero degli Interni, che se ne occupa attraverso le prefetture. Quindi non ci occupiamo di questo tipo di attività nei centri».
Che cos’è cambiato nella gestione dei migranti in questi anni?
«Cambiano i numeri, cresciuti ad esempio dopo il conflitto in Siria. Il numero dei morti è di 2.440 a oggi, un numero già superiore a quello dello scorso anno. Cambia anche la modalità del viaggio di chi scappa dai conflitti. Se è vero che gli arrivi via mare sono strutturali, il fenomeno prima era circoscritto ai mesi estivi adesso invece vediamo un flusso che non si ferma neanche nei mesi invernali. È cresciuto il numero dei morti rispetto agli scorsi anni non solo a causa dei naufragi ma anche al modo in cui sono costretti a viaggiare. I pescherecci portano sempre più persone di quelle che potrebbero sopportare».
Quali proposte lancia l’Unhcr per affrontare quest’emergenza?
«Proprio perché la crisi nel Mediterraneo è una crisi di rifugiati, chiediamo che vengano trovate alternative legali per evitare che le persone che stanno fuggendo siano costrette a prendere la barca per chiedere protezione in Europa. Per esempio, si potrebbero avere visti umanitari nei Paesi di transito e fare così un ingresso legale. Oppure, moltissime persone che arrivano in barca hanno parenti già rifugiati che si trovano in altri Paesi europei. Quindi, si potrebbe facilitare il ricongiungimento familiare, che è previsto per delle categorie ristrette, e far si che queste persone si possano spostare legalmente e arrivare in aereo».
Quanto può essere importante un’azione più incisiva dell’Unione europea?
«Il rafforzamento dell’operazione Triton è un passo nella giusta direzione. La priorità deve essere il salvataggio in mare. Temevamo che altri aspetti, come la sicurezza e la difesa dei confini, venissero considerati più importanti. Anche questo però non basta. Bisogna dare alle persone in fuga delle alternative concrete in modo che non siano costrette ad affidare la propria vita ai trafficanti e tentare questi terribili viaggi in mare. Ed è importante l’impegno di tutti i Paesi europei».
La politica che si divide sull’accoglienza quali impressioni dà a chi si impegna sul campo in favore dei rifugiati?
«L'attenzione della politica su come gestire il flusso migratorio è normale. È bene che se ne discuta e se ne parli. Quello che ci preoccupa è la strumentalizzazione di questo argomento e la rappresentazione non basata sui fatti. Questo fenomeno viene visto come un’invasione, non si contestualizzano i numeri e si dà una visione sbagliata. L’86 per cento delle persone che fuggono non vengono in Europa. Quindi, la rappresentazione che si dà di questo fenomeno ci preoccupa perché genera paura e mette a rischio l’accoglienza e l’integrazione dei rifugiati».
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