«Il territorio non è una cartolina che non cambia mai. È in continuo movimento, invecchia col pianeta e quando ci si costruisce sopra qualsiasi cosa va tenuta d’occhio. Prima che accada qualcosa. Non dopo». Michele Orifici, geologo, è il responsabile della Commissione Protezione Civile del Consiglio nazionale dei Geologi: «Non so - dice - se nel corso degli anni siano state fatte verifiche strutturali al viadotto della A19 a Tremonzelli e al territorio circostante. Certo è che, specialmente in una situazione come quella siciliana, il monitoraggio periodico è assolutamente indispensabile. Questa è una domanda alla quale bisognerebbe dare immediatamente una risposta perché il danno è enorme». Questo vuol dire che non si doveva arrivare a tanto? «Vuol dire che si potevano fare una serie di cose per rendere molto più improbabile che si arrivasse a tanto. Quell'area era ben conosciuta perché interessata da un movimento franoso con un fronte molto esteso. C'erano state avvisaglie già nel 2005. E di recente pare ci fossero stati chiari segnali di riattivazione». È come dire che, realizzata l'opera, il lavoro non era comunque finito? «Esatto. Quando si sa che un territorio presenta situazioni di pericolosità bisogna innanzitutto monitorarlo periodicamente. A maggior ragione nel caso di questo viadotto che appartiene a una infrastruttura così strategica come l'autostrada Palermo-Catania. Ma non basta. Bisognava pianificare interventi adeguati. Innanzitutto sulla frana con la realizzazione di sistemi di drenaggio ed altri interventi strutturali. Ma probabilmente si doveva intervenire pure sul viadotto per verificare la necessità di interventi mirati alla messa in sicurezza. La geologia è storia del passato che ci insegna a prevedere il futuro. Questo è l'ABC della prevenzione». Quanti altri possibili Tremonzelli ci sono nella rete autostradale siciliana? «Direi che ci sono diverse situazioni che bisognerebbe tenere sotto controllo e che, a mio giudizio, avrebbero bisogno di interventi strutturali. Penso alle zone di Buonfornello, di Castelbuono, di Santo Stefano Camastra interessate da continui avvallamenti che meriterebbero un'analisi delle cause più approfondita». C'è sempre il problema dei soldi. La prevenzione costa... «Non scherziamo. La prevenzione costa dieci volte meno di quanto occorre per affrontare le emergenze. E poi questa dei soldi che mancano è anche una mezza verità. Negli anni passati la Comunità Europea ha messo a disposizione fondi per affrontare il problema del dissesto idrogeologico che non sono stati spesi, perché magari i progetti sono stati bloccati col risultato che i fondi sono tornati indietro. Adesso l'Unità di Missione istituita recentemente dal governo della quale fa parte il presidente del Consiglio Gianvito Graziano, sta analizzando tutti i progetti bloccati ai fini di capire quali sono le problematiche e rifinanziarle». Ora c'è il problema dei tempi. A suo giudizio che previsioni si possono fare? Ed è data la possibilità che la ricostruzione del viadotto debba seguire altri percorsi? «Una valutazione del genere è prematura. Specialmente se non può avvalersi di un'adeguata analisi fatta in precedenza. Sui tempi i precedenti non inducono certo all'ottimismo. Se pensiamo a quello che è successo con la Palermo-Messina, potrebbero davvero volerci degli anni. Ma la vicenda dovrebbe suggerire di avviare al più presto un monitoraggio di tutta la situazione autostradale siciliana. Resto convinto che continuiamo ad essere guidati dall'emergenza. Invece bisogna cambiare proprio la mentalità, ripensare i criteri sui quali si fonda l'indirizzo politico nella realizzazione di queste infrastrutture. Bisogna utilizzare le competenze adeguate: geologi, ingegneri strutturali, ingegneri idraulici». Vediamo di spiegare quali potrebbero essere questi criteri. «I criteri non possono che partire dalla conoscenza. Bisogna sintonizzare l’analisi del territorio con l'evoluzione delle norme e delle conoscenze scientifiche. Al tempo della costruzione del viadotto, per esempio i calcoli strutturali venivano fatti in modo diverso. Uno studio fatto oggi sarebbe differente perché il territorio è in continua evoluzione. Ecco perché ci vogliono studi periodici». Esiste una mappa del rischio idrogeologico in Sicilia? «Si e i dati sono questi: 33.000 sono le frane censite. Sono i dati del PAI - Piano di assetto idrogeologico. Le aree a rischio idrogeologico sono ventimila e ottomila sono “nodi”, cioè il punto di incrocio fra un'asta fluviale e una infrastruttura o centro abitato, a rischio idraulico, secondo i dati del Dipartimento della Protezione Civili Regionale. Voglio sottolineare che appena il 50% dei comuni siciliani ha un piano di protezione civile fronte di un dato nazionale dell'80%. Di questi appena un decimo lo rende pubblico e organizza attività divulgative e di esercitazione con la popolazione. Il piano di protezione civile, quale strumento di conoscenza, di informazione e di azione, se è chiuso in un cassetto, è assolutamente inutile». Come si definisce il rischio a livello dei piani di prevenzione? «Tre sono gli elementi che definiscono il rischio: la pericolosità, la vulnerabilità e l'esposizione. La pericolosità è la frana e la probabilità che collassi. La vulnerabilità è data dallo stato del territorio esposto. L'esposizione è il dato più importante perché riguarda le persone: quanti esseri umani sono esposti al rischio? Una frana possibile su un campo di grano, vale di meno - se così si può dire - di una che minaccia un centro abitato». Il rischio ce lo regala la natura o ce lo procuriamo da soli? «Diciamo che c'è un concorso. I mutamenti climatici stanno svolgendo un ruolo. Oggi piove in un altro modo, c'è una maggiore concentrazione di precipitazioni in tempi più brevi e il territorio non riesce a smaltire. Ma ci sono anche macrofenomeni che riguardano i movimenti della popolazione Per esempio lo spopolamento delle campagne. C'è uno studio che racconta come le zone agricole si stanno svuotando. Il contadino non sta sul territorio, viene meno una sentinella importante. Nel contempo si è accresciuta l'urbanizzazione delle zone costiere. L'aumento della popolazione richiede servizi, strade, case e tutto ciò ha l'effetto di impermeabilizzare il territorio. Sono due facce della stessa medaglia e sono spesso la causa prima delle emergenze. Alla quale, ovviamente, da un forte contributo la cattiva politica del territorio, la concessione di licenze che procurano voti senza pensare che procurano anche disastri». Quale ruolo per i geologi? «La nostra posizione è nota. Noi pensiamo che la presenza dei geologi nel territorio dovrebbe essere istituzionalizzata. Non è una richiesta corporativa. Il fatto è che noi sappiamo le cose. Ma si dovrebbe pensare a noi quando le uova sono ancora sane e non quando è fatta la frittata».