«Quello che sta avvenendo in Europa è un fenomeno che parte dal basso. Migliaia di musulmani emarginati, spinti da una errata interpretazione massimalista della religione, rischiano da un momento all’altro di entrare in azione e compiere atti terroristici. Il mondo islamico deve prendere una forte posizione, ma servono anche nuove leggi per frenare questo fenomeno». Lo afferma Giovanni Parigi, professore di cultura araba presso l’Università degli studi di Milano e consulente in passato del ministero degli Esteri presso il team di ricostruzione a Nassirya, in Iraq. Come interpretare la strage di Parigi: un gesto isolato o dietro c’è una precisa strategia criminale? «In realtà non c’è un nemico ben organizzato, strutturato. Il nemico sarebbe l’Isis, ma quello che sta avvenendo in Europa e in tutto mondo arabo, è un fenomeno che parte dal basso purtroppo, riguarda una galassia di movimenti, un network internazionale di persone non definibili, una rete non identificabile che non ha una struttura verticistica. È un fenomeno spontaneo che trova sponda nella religione». Ma chi sono questi terroristi, come nasce questa rete di potenziali attentatori? «Sono sostanzialmente di tre tipi. Intanto ci sono coloro che sono identificabili nell’”homegrown terrorism”, cioè nel terrorismo cresciuto in casa. In molti Paesi europei ci sono immigrati ormai di seconda o terza generazione che vivono da decenni per lo più in un contesto di emarginazione, spesso senza un lavoro e con precedenti di piccola delinquenza. Questo quadro non riguarda solo gli arabi islamici ma tutti, anche slavi, sudamericani. Solo che in ambito islamico purtroppo la comunità è più esposta all’interpretazione della religione. Perché non è la religione che spinge a questi atti terroristici ma è una sua interpretazione politica in chiave massimalista. Poi ci sono i “foreign fighters”, cioè coloro che sono partiti dall’Europa, hanno fatto la guerra in Iraq o in Siria e sono tornati in Europa. Sono cinque, diecimila giovani che al loro ritorno finiscono quasi sempre nel circuito della microcriminalità. Infine c’è un’area grigia di musulmani in condizione di povertà. Così è nata una sorta di internazionale jihadista pronta a partire per difendere la causa islamica. Sono tutti soggetti più facilmente a indottrinamenti e false interpretazioni della religione». Quindi non c’è un ordine dall’alto: allora come agiscono? «In molti casi si tratta di processi di emulazione, di imitazione. Ci sono gruppetti di persone che decidono di agire per fare qualcosa, per una causa. Non abbiamo di fronte un’istituzione organica, gerarchizzata. Sono piccoli criminali, poveri, gente disagiata. Altre volte sono persone che in carcere si sono convertite e hanno unito le proprie competenze criminali a quelle di altri carcerati. Basta che un Imam li convinca sulla necessità di compiere un atto terroristico, sulla base di una interpretazione massimalista della religione, per fare scattare il piano criminale». Due terroristi incappucciati, che perdono la carta di identità, che sbagliano indirizzo: crede che nella strage di Parigi ci sia qualche punto oscuro? «In realtà questo dimostra proprio il fatto che si tratta di gente inesperta, che ha un addestramento militare ma non è capace di pianificare bene l’azione. Un punto oscuro è legato forse al fatto che questi attentatori erano comunque già noti alla polizia e alle agenzie di sicurezza. Per cui a questo punto il problema sembra più legato a un’inefficienza legislativa, perché se sappiamo che un cittadino è andato per un anno in Siria a combattere e al suo rientro è un pericolo per il Paese, al suo rientro bisogna stare più attenti». Ma perché sta avvenendo proprio in questo periodo storico? «Da una parte la globalizzazione, il fatto che ad esempio in Francia milioni di cittadini sono di origine araba. E poi la diffusione dei nuovi media, la facilità nella circolazione di idee, la comunicazione. Oggi su internet è più facile il reclutamento e l’indottrinamento. Per non parlare del fatto che ormai il vaso di pandora è stato aperto, con la caduta di Gheddafi in Libia, le rivoluzioni della primavera araba, la restaurazione in corso. C’è fortissimo fermento di tutti i movimenti a base religiosa». Quindi come reagire di fronte a questo nuovo pericolo? «Uno dei punti da cui partire è quello di coinvolgere la comunità islamica che deve prendere una posizione forte di condanna, per frenare la nascita di nuovi terroristi. Serva una maggiore responsabilizzazione della comunità islamica ma servono anche delle nuove leggi. Si è discusso ad esempio di negare la cittadinanza a cittadini che si recano in Medio Oriente in guerra e poi decidono di tornare in Europa. In ogni caso si tratta di un fenomeno che può essere sconfitto. Penso agli anarchici di fine ‘800 o al terrorismo di destra e di sinistra che negli anni Settanta e Ottanta ha provocato centinaia di morti». Crede che ci siano pericoli in Italia e in particolar modo in Sicilia? «A livello di rischi è difficile azzardare valutazioni. La Sicilia sicuramente è una terra di transito. Obiettivi possono essercene ma è difficile valutare. In passato si è parlato ad esempio della Santa Sede come obiettivo sensibile, ma in questo caso servirebbe una grande pianificazione dell’attentato. Tutto è imprevedibile, si tratta di persone emarginate che un bel giorno decidono di passare in azione».