Lunedì 18 Novembre 2024

Caltanissetta, Cosa nostra divisa e pronta a cambiare il capo

CALTANISSETTA. Lo scettro del comando della mafia nissena è ancora tra le mani di Giuseppe Madonia, detto «Piddu». «Quest’ultimo, nonostante i numerosi anni di galera continua a gestire i propri illeciti interessi attraverso il suo circuito parentale e quello delle amicizie più fidate» parola della Dia, Direzione Investigativa Antimafia. Ma, c’è un ma. In Cosa nostra non sono sempre rose e fiori e Madonia ha «rischiato» di essere abbattuto. Una guerra intestina che, forse, si è conclusa quando, nel tentativo di sfuggire alla cattura dei poliziotti, è stato ucciso Daniele Emmanuello, capomafia gelese, con propagini di parentele anche a Vallelunga, la «patria» di «don Piddu». Una spaccatura che venne, anche, determinata dalla nomina a reggente provincia del campofranchese Angelo Schillaci. Secondo quanto avrebbero accertato gli uomini della Dia Angelo riuscì ad ottenere la carica di rappresentante provinciale di cosa nostra. Si trattò, infatti, come spiegato dal collaboratore Maurizio Carrubba, anche lui di Campofranco, di una sorta di «autopromozione» da parte di Schillaci, il quale scrisse al capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano, all'epoca latitante, chiedendogli il permesso, di fatto, di proseguire nell'opera di Domenico Vaccaro, per conto del quale, prima del suo arresto, aveva tenuto i contatti con gli altri esponenti mafiosi, e instaurato dunque rapporti che gli avrebbero ora consentito di assolvere facilmente all'incarico. Nel fornire la propria autorizzazione, Provenzano fu, stando al Carrubba, piuttosto cauto, in quanto condizionò l'assenso alla mancanza di una volontà contraria da parte di esponenti di Cosa nostra nissena che, ove fosse stata manifestata, avrebbe di fatto invalidato la nomina. Ma quella nomina non andò giù ad una grossa fetta della Cosa nostra nissena, soprattutto quella gelese. Ciò emerge da diverse indagini e in una di queste, l’operazione «Repetita Juvant» il giudice scrive nell’ordinanza: «Le modalità con le quali Angelo Schillaci (inteso Fungidda) ottenne la carica di reggente provinciale, in verità un po' anomale (sia pure involgenti l'autorevole benedizione di Bernardo Provenzano), appaiono utili per spiegare le dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia un tempo gravitanti, anche con ruoli di spicco, nella famiglia Emmanuello di Gela (dichiarazioni di Crocifisso Smorta Crocifisso e Massimo Carmelo Billizzi), secondo le quali gli esponenti del sodalizio mafioso radicati nella parte sud della provincia (e, in particolare, nei mandamenti di Gela e Riesi) non ebbero a riconoscere la leadership di Schillaci e si attivarono, anzi, per intessere alleanze che avrebbero potuto consentire a Daniele Emmanuello (all'epoca latitante) di avere la formale nomina alla reggenza provinciale con il consenso di tutte le famiglie mafiose Si tratta, come si potrà agevolmente comprendere, del riflesso di quella situazione di latente contrasto creatasi in Cosa nostra a partire dalla metà degli anni '90, secondo cui la fazione più direttamente riconducibile a Vito Vitale, Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella - rappresentata in territorio di Caltanissetta principalmente dai Cammarata di Riesi e dal clan Emmanuello di Gela - cercò di scalzare dal vertice Giuseppe Madonia (ed i soggetti allo stesso maggiormente fedeli, primi fra tutti gli esponenti di Campofranco) per assumere le redini del sodalizio mafioso in ambito provinciale». Proprio per questo motivo si adombrò l’ombra che il tentativo di catturare Daniele Emmanuello, da parte della polizia, azione poi finita con l’uccisione del boss gelese, sarebbe stata «aiutata» da una «soffiata» da parte di qualche «fedele» di Piddu Madonia. La morte di Daniele Emmanuello comportò anche un certo «vuoto di potere» nell’area gelese. Sempre gli uomini della Dia avrebbero accertato che «all'indomani della morte dell'Emmanuello, a seguito dello stato di incertezza venutosi a creare all'interno dell'organizzazione, si siano mossi soggetti interessati a sfruttare ed a colmare il vuoto di potere così determinatosi. In particolare, stando alle risultanze dell'indagine, Francesco la Rocca, leader indiscusso di Cosa nostra calatina, sfruttando i vincoli di amicizia che lo legavano allo stesso Emmanuello, avrebbe cercato di sfruttare la situazione, tentando di unire sotto un'unica egida le famiglie criminali gelesi e calatine».
L’analisi degli uomini della Dia, guidati dal capocentro Gaetano Scillia, e coordinati dalla Direzione Distrettuale Antimafia con a capo il procuratore Sergio Lari, si soffermano anche sulla situazione attuale. «L’assetto della criminalità organizzata della provincia nissena - è scritto nella relazione semestrale - risulta caratterizzato dalla prevalente presenza di Cosa nostra, alla quale sono riconducibili la maggior parte degli eventi di matrice mafiosa, strumentali al rafforzamento delle gerarchie e del predominio sul territorio dell'organizzazione stessa, in particolare nei territori di Caltanissetta, Gela, Riesi, Mazzarino, Niscemi, Serradifalco, Campofranco e Vallelunga Pratameno. La stidda, invece, continua a conservare una certa influenza nei comprensori di Gela e Niscemi, confermando ancor di più la propensione all'accordo sistematico con le famiglie di Cosa nostra operanti nello stesso territorio, per una equa e proporzionale spartizione degli illeciti guadagni provenienti dalle estorsioni, dal traffico degli stupefacenti, dall'usura e dal controllo degli appalti. I clan gelesi continuano ad evidenziare la loro spiccata attitudine alla rigenerazione ed alla mimetizzazione dei guadagni derivanti dalle attività illecite poste in essere su quel territorio. Il controllo mafioso della provincia, rimane suddiviso nei quattro mandamenti di Vallelunga Pratameno, Mussomeli, Gela e Riesi».

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