CALTANISSETTA. I poliziotti della squadra mobile di Caltanissetta e del commissariato di Niscemi, hanno fermato su ordine della Dda nissena sei presunti mafiosi che secondo le indagini stavano riorganizzando le famiglie mafiose locali. Tra loro ci sono anche i capimafia di Niscemi e Gela. I sei sono indagati per associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsione aggravata e porto abusivo di armi. L'operazione di polizia nasce dalla denuncia di due imprenditori di Niscemi e si è avvalsa di dichiarazioni di collaboratori di giustizia.
FERMI PARTONO DA DENUNCE DI 2 IMPRENDITORI. L'operazione della squadra mobile di Caltanissetta, in collaborazione con il commissariato di Niscemi, disegna l'attuale assetto di Cosa nostra e della Stidda, dopo l'arresto, il 15 febbraio scorso, dell'ultimo dei capi storici di Cosa nostra niscemese, Giancarlo Giugno, arrestato nell'operazione «Rewind». Un contributo alle indagini è stato dato da due coraggiosi imprenditori di Niscemi, che si sono rifiutati di pagare e, confortati dal sostegno delle forze dell'ordine, hanno denunciato tutto alla magistratura, suscitando la reazione dei boss che secondo intercettazioni ambientali, si stavano preparando a «punire» i ribelli, colpevoli di avere rotto il «patto di omertà». Da qui la decisione della Dda nissena di fermare i sei indagati, con una operazione che è stata denominata «Fenice». Secondo le indagini, Alessandro Barberi, consuocero del boss del Nisseno «Piddu» Madonia, sarebbe il nuovo reggente provinciale di Cosa nostra e boss delle famiglie di Gela; mentre a Niscemi l'organizzazione sarebbe guidata ora da Alberto Musto, rampante studente universitario originario di Vittoria (Ragusa), subentrato a Giancarlo Giugno che lo aveva inserito nel «vivaio» delle nuove leve criminali. Musto avrebbe organizzato la sua nuova gestione avvalendosi della collaborazione di Alessandro Ficicchia, esponente storico di Cosa nostra niscemese, Salvatore Blanco (soprannominato Turi Paletta) il pastore Fabrizio Rizzo, uomo di fiducia di Barberi, e il marmista Luciano Albanelli. Insieme avrebbero imposto la loro egemonia criminale nel territorio intensificando l'attività estorsiva «a tappeto - scrivono gli inquirenti - con una preoccupante escalation di atti intimidatori, anche attraverso l'uso di armi ed ordigni esplosivi, per convincere le vittime a pagare».