Escludo di votare alle prossime elezioni una formazione politica di destra: credo che mi sforzerò ancora una volta di scegliere un partito del centro-sinistra come ho fatto negli ultimi trent’anni, riservandomi però fin d’ora anche la libertà di astenermi (una scelta inedita per me). Premetto questa micro-nota autobiografica (il mio piccolo pantheon politico di matrice liberal-socialista e cristiano sociale, del tutto consegnato ormai al sistema museale, me lo consente, spero), per esprimere il mio pieno apprezzamento per la conduzione politica del governo da parte di Giorgia Meloni. Si badi, lo pensavo prima ancora di apprendere dell’ultimo successo ottenuto caparbiamente con la liberazione di Cecilia Sala. Questo significa forse che ho condiviso tutte le scelte della maggioranza di destra-centro compiute negli ultimi due anni? No, tutt’altro. Molte non le ho condivise, altre scelte in preparazione spero che non vadano in porto. Il punto, però, non è questo. Piuttosto si tratta di prendere atto, con spirito critico, che la Meloni ha interpretato in modo certamente discutibile nei contenuti ma pressoché ineccepibile quanto a cura dell’interesse nazionale, il ruolo di capo del governo italiano nello scenario internazionale. E lo ha fatto partendo da una posizione assai svantaggiata per esperienza personale e provenienza politico-culturale: si trattava, infatti, di inserirsi in un contesto molto diffidente, non solo in Europa, nei confronti della sua avventura politica. Ma ha dimostrato che in qualche modo non è impossibile mantenersi fedeli alle proprie idee senza tradire l’interesse nazionale. Basti pensare alla conduzione – magistrale – delle trattative in sede UE per la composizione della nuova Commissione: era difficilissimo tenere insieme il posizionamento del suo partito e la protezione degli interessi domestici, ossia la necessità politica di avere alla vicepresidenza un italiano con delega «pesante». Ma vi sarebbe anche tanto altro da dire e raccontare, dal punto di vista di un comune cittadino come me non addetto ai lavori (e neanche vorrei abusare della mia inclinazione bipartisan...), senza contare che - piaccia o no al mondo femminista – di una donna così autorevolmente impostasi nell’agone politico italiano non si aveva memoria in Italia. Adesso, però, la questione è se chi sta lavorando a una leadership alternativa per le prossime elezioni ha chiaro che tipo di avversaria si troverà di fronte quando sarà. Perché una democrazia tiene nel suo nucleo essenziale se riesce a non lasciarsi inghiottire, passo dopo passo, dalla tentazione di abbandonarsi, più o meno consapevolmente, alla tirannia della maggioranza, a una sorta di «autoritarismo ben intenzionato» alimentato con pari responsabilità da chi governa e da chi fa opposizione comodamente coltivando interessi di piccolo calibro. Può sembrare paradossale, ma la lapidaria dichiarazione della segretaria del Pd che ha ringraziato Il governo per quanto fatto nella vicenda di Cecilia Sala, va nella giusta direzione. È, infatti, un riconoscimento unilaterale dell’appartenenza al comune destino nazionale dell’esperienza di governo meloniana che ancora mancava in questi termini da parte dell’opposizione, e che potrebbe anche indurre il capo del governo a cambiare registro sull’aspetto meno convincente della sua politica, cioè il non distinguere ancora con la dovuta nettezza la dimensione governativa da quella di capo-partito. Non è più la «sinistra» il suo avversario da bullizzare alla bisogna (lo sarà al momento delle elezioni certamente): piuttosto, nei prossimi anni di governo sono ben altre le questioni da affrontare, talmente di spessore che forse occorrerà avere a tratti l’intero paese al suo fianco, non solo i partiti che la sostengono. Non credo, infatti, che sarà facile difendere gli interessi nazionali ed europei in un contesto internazionale che oggettivamente presenta notevoli insidie per le nostre democrazie, visto che gli attori principali, americani, russi e cinesi in testa, hanno a cuore tutto tranne lo stato di salute dei popoli europei. Il passo falso - occorre riconoscerlo, quantomeno sul piano comunicativo – nella vicenda del presunto ingaggio italiano delle aziende di Musk per la protezione del nostro sistema di telecomunicazioni e promosso dal tycoon sudafricano a colpi di post nei social di sua proprietà, è un primo esempio di quel che potrebbe accadere sempre più frequentemente nel prossimo futuro. Forse sbaglierò, ma la struttura politica della leadership meloniana è incompatibile quanto quella della Shlein con una politica internazionale che oltrepassa perfino la dimensione multipolare per lasciarsi travolgere da una sorta di turbo-capitalismo digitale che annulla ogni confine, non nel segno del dialogo tra i popoli ma all’insegna del profitto per pochi grandi ricchi del pianeta. Davvero, da destra a sinistra, vogliamo rinunciare alla nostra – ora sì! – sovranità politica e culturale di matrice europea? Sono sicuro di no, ma è questo il terreno su cui confrontarsi a casa nostra, se occorre scontrarsi oppure allearsi, in vista di un futuro, di un’identità plurale, che ora l’Italia e l’Europa non possono più dare per scontati. C’è da costruire un argine condiviso, supportato da una memoria collettiva radicata nei valori della Costituzione, a difesa della sovranità delle nostre democrazie e del nostro stile di vita che non tollerano il dominio del capitale finanziario e digitale sulle scelte individuali e sociali dei nostri popoli. È, credo, la sfida principale che attende ora il capo del governo in primo luogo e che non può lasciare indifferenti le altre forze politiche. Intanto, ben tornata Cecilia.