I mezzi di informazione si occupano poco della giustizia civile; le cause civili non attirano l’attenzione dei lettori che sono invece desiderosi di informazioni sui processi penali.
La giustizia civile però è alla base della convivenza sociale e nel quotidiano i giudici civili sono chiamati a risolvere tutti i contenziosi della più svariata natura. Una giustizia efficiente evita che il cittadino possa farsi giustizia da sé, commettendo un reato, che è punito dall’art. 392 del codice penale.
La stampa si occupa della giustizia civile solo per denunciare la durata dei processi e per preannunciare miracolose riforme che dovrebbero consentire di evitare le «lunghezze» dei processi, ponendo rimedio alle «inefficienze». Purtroppo la spinta a introdurre queste riforme deriva da cause esterne piuttosto che dalla volontà di migliorare il servizio giustizia a beneficio dei cittadini.
L’Italia, in particolare, a causa della durata dei processi è stata più volte condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU); per evitare queste condanne l’Italia ha introdotto una legge che consente ai cittadini di chiedere alla Corte di appello di liquidare un indennizzo per la irragionevole durata dei processi (la c.d. legge Pinto, del 2001).
I vari Governi che si sono succeduti hanno pure introdotto numerose modifiche al codice di procedura civile destinate ad abbattere i tempi della giustizia civile; le riforme sono state giustificate anche con la necessità di attirare gli investitori stranieri, che sarebbero disincentivati dall’investire in Italia a causa della durata dei processi civili (tesi che lascia perplessi, perché il primo ostacolo che l’investitore affronta è il rapporto con la pubblica amministrazione e i grossi investitori di solito risolvono le loro controversie in procedimenti arbitrali o stragiudiziali).
Lo scopo nobile di ridurre la durata dei processi, però, è stato attuato con strumenti discutibili. Le riforme hanno fatto lievitare i costi per l’accesso alla giustizia, aumentando il costo delle tasse che gravano sulle parti (queste tasse hanno il nome di «contributo unificato») e introducendo multe a carico di chi vede rigettata la domanda. Le novità hanno pure stabilito che le parti possono fornire le prove al giudice soltanto nelle primissime fasi del processo: questo obbligo di dire «tutto e subito» e di depositare immediatamente tutti i documenti spesso consente il prevalere della parte più organizzata e scaltra, e non della parte che ha ragione.
Per aumentare i costi a carico delle parti e ridurre il numero delle cause è stato anche introdotto, in molte materie, l’obbligo di rivolgersi ad un mediatore prima di iniziare la causa civile.
La Banca d’Italia in uno studio del 2022 sulla giustizia civile (La giustizia civile in Italia: durata dei processi, produttività degli uffici e stabilità delle decisioni) ha dato atto che negli ultimi anni si è registrata una diminuzione del numero dei processi pendenti, ma solo perché c’è stata una riduzione della domanda di giustizia, «che ha più che compensato la minore capacità di definizione dei procedimenti»: in altri termini il privato non si rivolge alla giustizia civile a causa dei tempi e dei costi, ma la macchina giudiziaria non è migliorata.
Secondo la CEDU un processo dovrebbe durate al massimo tre anni in primo grado, due anni in appello e un anno in Cassazione.
In Italia questi tempi sono ampiamente superati: è difficile trovare dati attendibili per il processo di primo grado, mentre in appello la durata media è di 1.026 giorni e in Cassazione di 1.526 giorni.
Tra gli obiettivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza vi è la riduzione della durata media dei processi del 40% nel settore civile entro il 30 giugno 2026. Entro il 31 dicembre 2024 dovrebbe assistersi ad una riduzione del 95% dei procedimenti civili che sono iniziati davanti al tribunale prima del 31 dicembre 2016 e di quelli che sono iniziati davanti le Corti di appello prima del 31 dicembre 2017.
Questi obiettivi, difficilmente realizzabili, fanno toccare con mano il fatto che nel 2024 pendono molti giudizi che risalgono a prima del 2016. In questa situazione di crisi occorre cambiare prospettiva. Non è agevole trovare una soluzione, ma l’esperienza ha insegnato che le modifiche alle norme sul processo civile non hanno avuto effetti positivi.
Per rendere un servizio efficiente, il legislatore dovrebbe aumentare gli organici della magistratura e delle cancellerie e dovrebbe introdurre una tregua delle riforme continue, per consentire a giudici e avvocati di adeguarsi alle nuove leggi, che sono sempre motivo di dubbi applicativi e, quindi, di ritardi e di contrasti tra le parti. La mediazione non dovrebbe essere obbligatoria, ma facoltativa.
Appare pure necessario introdurre scuole che possano accompagnare la formazione dei laureati in legge in vista del concorso in magistratura: negli ultimi concorsi alcuni posti sono rimasti vuoti perché i candidati non avevano la preparazione necessaria per superare le prove.
Del pari la pubblica amministrazione dovrebbe cercare forme di definizione stragiudiziale del contenzioso: una parte rilevante del contenzioso civile deriva infatti da inadempimenti della pubblica amministrazione o dalla sua inefficienza (si pensi a tutte le cause previdenziali). Solo in questo modo sarà possibile restituire al cittadino la fiducia nella giustizia.
*Professore associato di procedura civile nell’Università di Palermo
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