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Il finimondo e i principi costituzionali, si riaccende lo scontro dopo il blocco dei trattenimenti in Albania

Ci risiamo. Come un vulcano quiescente ma ben attivo, lo scontro tra politica e magistratura oggi raggiunge un’ennesima vetta eruttiva. La lava incandescente si riversa, ineluttabilmente, su ogni centro abitato dal civismo costituzionale travolgendo tutto, buon senso istituzionale e gli stessi capisaldi dello stato di diritto. Era proprio necessario? No. Se non ci fosse una diffidenza cronica tra chi governa e chi applica il diritto nel nostro Paese, i provvedimenti emessi dalla sezione immigrazione del Tribunale di Roma sarebbero stati oggetto di una pacata discussione, anche critica, e sottoposti dalle parti interessate agli ordinari mezzi di impugnazione.

Oppure si sarebbe elaborata una via d’uscita legislativa in grado di contemperare in modo più avanzato i vari principi in gioco. E invece esplode il finimondo: «I magistrati vogliono fare entrare in Italia cani e porci», «i giudici non collaborano all’attuazione delle politiche dell’esecutivo», «il provvedimento del Tribunale di Roma è abnorme»: queste le prese di posizione scagliate nell’area mediatica. Che lasciano intendere una certa resistenza governativa a misurarsi con i meccanismi delicati di una democrazia costituzionale in cui la separazione dei poteri, in particolare tra esecutivo e giudiziario, è un valore posto a garanzia di tutti, compresi coloro che in questo momento vedono con il fumo negli occhi le decisioni dei giudici perché ritengono siano adottate per ostacolare i progetti politici del governo. Né, per la verità, è il momento di tirare le somme su quanto speso per la realizzazione del centro di Gjader: ma l’opposizione non può che fare il suo mestiere per mettere in difficoltà gli avversari con argomenti suggestivi, soprattutto quando scarseggiano proposte alternative in grado di raccogliere consenso.

Finché, dunque, il vulcano continua a eruttare questo materiale incandescente, non è semplice resistere alla tentazione di schierarsi o scappare, rinunciando così in entrambi i casi a discutere nel merito giuridico la questione che, invero, è tutt’altro che pacifica. I giudici romani, infatti, si sono assunti la responsabilità di esercitare pienamente il mandato riconosciutogli anche dalla Corte europea di giustizia, di valutare caso per caso i requisiti di «paese sicuro» come condizione prevista dalla legge per convalidare il trattenimento dei migranti nel centro albanese in vista del rimpatrio nei loro paesi di origine, centro costituito grazie a un protocollo approvato anche dai parlamenti delle due nazioni.

Si tratta di una «procedura accelerata» prevista per i richiedenti asilo salvati in mare dalle autorità italiana in cui i magistrati, per considerare o meno «sicuro» il paese di origine del migrante, devono avvalersi di una lista di paesi contenuta in un decreto interministeriale periodicamente aggiornato, vagliando però di volta in volta la sussistenza attuale e in concreto del suddetto requisito, secondo quanto raccomandato appunto dai giudici europei. Ebbene, nel nostro caso il Tribunale di Roma ha preso atto che la predetta lista indica l’Egitto e il Bangladesh, paesi di origine dei migranti trattenuti, come «sicuri ma con eccezioni per alcune categorie di persone: oppositori, dissidenti politici, difensori dei diritti umani» e perseguitati per varie ragioni.

Sicché, il punto giuridico della questione (e solo indirettamente politico) è rappresentato dall’estensione che si vuol dare alla garanzia apprestata dall’ordinamento sovranazionale (e quindi anche italiano) ai migranti per evitare di rimpatriarli mettendo a rischio la loro incolumità, ossia alla nozione di «Paese sicuro»: si tratta di un dato meramente «territoriale» (guerre in corso, porzioni di territorio fuori controllo, ecc.) o anche, per dir così, di tipo «soggettivo» (persecuzioni e discriminazioni contro categorie di individui)? Al riguardo i giudici romani ritengono - sulla scorta di una robusta giurisprudenza formatasi in precedenza e a prescindere dalla vicenda del centro albanese - che le fonti sovranazionali, e in particolare la sentenza del 4 ottobre scorso della Corte di giustizia (pluricitata in questi giorni), imporrebbero la seconda risposta tra le due possibili. Interpretazione, questa, sicuramente plausibile (e condivisibile dal punto di vista umanitario) ma certamente non scolpita sulla pietra, cioè opinabile come gran parte delle questioni giuridiche affrontate quotidianamente dalla magistratura.

Ecco, allora: ai giudici delle corti superiori il compito di sciogliere l’eventuale dubbio che pure legittimamente può sussistere su questo specifico profilo. Mentre ai governi e alle loro maggioranze parlamentari la libertà di elaborare e realizzare le politiche di contrasto alle migrazioni irregolari che ritengono migliori. Ma senza mai mettere in discussione il pilastro dei valori costituzionali protetto dall’art. 13 della nostra Costituzione, ossia la garanzia per tutti, nessuno escluso e quindi compresi i migranti, che «la libertà personale è inviolabile» e che può essere limitata soltanto con atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi previsti dalla legge. Tutto sommato l’abc della civiltà democratico-costituzionale: tenercelo stretto significa, anzitutto, difendere la libertà di ciascuno di noi ora e nel futuro.

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