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La sanità siciliana e il «balletto inqualificabile»: ora la denuncia di Schifani non resti fine a sé stessa

Non è usuale ascoltare un presidente della Regione che spara così ad alzo zero su un sistema che lui stesso è chiamato a governare

Non è usuale ascoltare un presidente della Regione che spara così ad alzo zero su un sistema che lui stesso è chiamato a governare. E quelle parole, cariche di rabbia e di una buona dose di frustrazione, pronunciate ieri all'indomani della chiusura del triste mercato delle vacche delle nomine in Sanità, si offrono a una duplice lettura, in base anche alla prospettiva, non solo politica, da cui vengono esaminate. Di primo acchito verrebbe da dire che l'ex presidente del Senato – abituato più alle sottili e ovattate diplomazie delle stanze romane in cui si muoveva perfettamente a suo agio che alla cruenta frontiera di un governo territoriale, tanto più se siciliano – peccherebbe quantomeno di ingenuità, davanti a un sistema perennemente uguale a se stesso, gattopardesco nella forma, spartitorio e speculativo nella sostanza. Ma l'ingenuità in politica non è certo dote di cui vantarsi. Può non sapere, il capo del governo siciliano, quello che si trama nelle botteghe dei pupari della politica della Regione, che lui governa proprio col sostegno decisivo di questi stessi pupari? Difficile a credersi, difficile da accettare.

Peraltro non sarebbe neanche la prima volta: non sono poche le occasioni in cui Schifani ha ammesso di non sapere cosa si firma, si decide e si porta avanti fra segreterie, assessorati e dipartimenti e di scoprirlo solo sui giornali, lamentando fughe in avanti e mancate concertazioni collegiali. Cosa che spesso ha creato non pochi problemi di rapporti con alcuni dei suoi assessori. Insomma, connivenza ipocrita o voluta presa di distanze da certi metodi? Per i suoi detrattori non può che essere la prima. E difficilmente lui riuscirà mai a convincerli del contrario.

Noi però vogliamo a questo punto ripartire proprio dallo Schifani del giorno dopo. Da quello che si presenta a una inoffensiva conferenza stampa sui treni storici e, per deliberata scelta, decide di deragliare, accendere il faro della denuncia e impugnare la clava della polemica in casa propria. Sa bene che parlare di «balletto inqualificabile» o di «sistema incancrenito» non può restare senza conseguenze. Sa altrettanto bene che dire che non si fa manovrare, che non è condizionabile, che non fa sconti a nessuno, significa che qualcuno più prima che poi gli presenterà il conto. Insomma, è chiaro che proprio in quel sistema incancrenito di cui lui parla – e non certo nella fantasilandia della politica alta e pura a cui tutti illusoriamente aspireremmo – queste parole si depositano come macigni sull'operatività e la gestibilità del governo della cosa pubblica cui è chiamato da due anni e, salvo effetto tsunami, per i prossimi tre. Dunque vogliamo leggerci coraggio, oltre l’ambizione personale. Ammettere di subire certe nefandezze può essere prova di debolezza ma anche chiave di volta per sganciarsi da certe logiche e saper reagire. Il coraggio del distinguo. A cui adesso però auspichiamo segua il coraggio della condotta. Lo ha detto nei giorni scorsi e lo mantenga: davanti a ospedali malfunzionanti, reparti obsoleti, pronto soccorso da terzo mondo, gestioni allegre, spese folli e liste d'attese infinite, i manager – e relativi colonnelli - che non mantengono gli impegni entro ragionevoli limiti di tempo devono andare a casa. A prescindere dal tesserino politico nascosto nel portafogli o dalla vicinanza personale al superburocrate dai poteri illimitati, che tesse e dispone più di un assessore. E allora crederemo alla bontà dell'ira di Schifani.

Le buone interlocuzioni romane, la tela di rapporti istituzionali che passa dai messaggi scambiati quasi quotidianamente su whatsapp con Giorgia Meloni, dagli abbracci a favore di telecamere e taccuini con Antono Tajani, risalendo a ritroso fino alla primigenìa dell'endorsement di Ignazio La Russa sulla sua candidatura nell'estate del 2022 hanno dato peso e risultati alla sostenibilità del governo siciliano guidato dall'attuale presidente, capace di tirarlo fuori dalle secche in cui era retrocesso nelle prolungate stagioni delle infruttuose anticamere nei palazzi dell'Urbe. Ma i conti vanno fatti qui. E con chi ti sta accanto. L'indecoroso spettacolo sulle nomine dei direttori di Asp e ospedali sorprende solo le candide verginelle delle favolette a tinte rosa. Nulla di nuovo, nulla di diverso, nulla di peggiore. Da anni. Tanto quanto, giusto per non dimenticare, il volgare festival multimilionario andato in scena ben due volte nel giro di pochi mesi all'Ars sulla spartizione delle prebende per sagre paesane e iniziative di basso cabotaggio provinciale e alto impatto elettorale. Tutti sanno. Tutti ci stanno. Perché a tutti conviene. «È normale prassi politica», affermava serafico l'allora assessore al Bilancio, oggi europarlamentare.

Ecco perché vogliamo ripartire dallo Schifani con la clava. Da quello che ci piacerebbe fosse un punto di non ritorno. Il sistema è parecchio incancrenito. E a riconoscerlo, una buona volta, è chi ci sta seduto sopra. Che non siano parole al vento, allora. Ma l'inizio di una inversione di rotta. La Sicilia ha bisogno di un governo per sé, non per chi la governa. Servono scelte di rottura di quel sistema malato ed esempi concreti. Vogliamo suggerirne uno a Schifani: il disegno di legge firmato proprio da esponenti del suo partito, che mira a moltiplicare le poltrone (e i relativi costi) nelle giunte e nei consigli comunali è un inopportuno e intempestivo sberleffo di cui non sentono la necessità né il buonsenso comune né la governabilità dei comuni. Alzi la voce anche lì e faccia calare la mannaia su certe infelici e insostenibili alzate d'ingegno. Avremo la conferma che il suo è coraggio nuovo senza mire personali e non vecchia e ritrita malcelata connivenza.

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