Come un soufflè. La maggioranza di centrodestra - unita, compatta e ben disposta a inciuciare con l’opposizione quando c’è stato da spartire mance elettorali e prebende clientelari - si è miseramente sgonfiata. Implodendo nel pantano delle beghe interne, delle vendette, delle ripicche. E sancendo una sostanziale ingovernabilità che rischia di allungare pericolosamente la sua ombra fino a primavera inoltrata. Quando poi l’attività si fermerà per consegnarsi all’arena elettorale delle Europee prima e alla siesta delle vacanze estive dopo. Scoraggiante prospettiva, non c’è che dire. Siamo alle solite, del resto. Di assemblee regionali litigiose e ondivaghe sono pieni gli archivi delle nostre cronache. La precedente legislatura ha per esempio raggiunto vette siderali di improduttivo sfascio. Abituati da anni e per anni all’immagine di un Parlamento siciliano più teatro di rese dei conti politiche che fattiva camera di indirizzo e governo del territorio, ci eravamo illusi che l’ultimo voto - battezzando una maggioranza numericamente forte - ci avesse prospettato un percorso di proficua stabilità. Niente da fare. Ieri si è consumata - nel pavido nascondiglio dello scrutinio segreto - quella che nel migliore dei casi può apparire come una vendetta a stretto giro di posta, ma che invece abbiamo la ragionevole impressione sia molto di più: la tangibile certificazione della fine prematura e irreversibile di un percorso politico. La politica ci ha da sempre abituati ad alchimie e acrobazie per provare a tenere in piedi ciò che non sta in piedi, più per interesse di parte (la loro) che per senso del dovere. E magari succederà anche stavolta. Anche se viene al momento davvero difficile immaginare come il capo del governo siciliano possa presentarsi nelle prossime settimane al cospetto e al giudizio di un’aula in cui non si sa più chi sta con chi. Perché se dobbiamo credere alla mera vendetta, allora dovremmo leggere nella giornata di ieri la risposta delle brigate sciolte siciliane di Fratelli d’Italia agli alleati, che non più tardi di una settimana fa hanno segato la norma salva-ineleggibili che avrebbe scongiurato la decadenza di tre di loro. Una vendetta segreta a dispetto di impegni contrari presi alla luce del sole davanti allo stesso Schifani, nonché ai propri leader romani. Ma in realtà a «dopare» il no che ha affossato la riforma delle Province ci sarebbero anche le scelte di pezzetti clandestini di Forza Italia, della Lega, della Dc. Insomma di una maggioranza contraria a se stessa. Non che alle sorti del voto sulle Province legassimo chissà quale determinante sorte per il nostro futuro di siciliani. Al di là di un auspicabile ritorno al passato - al posto del vuoto assoluto del presente - la cui legittimità costituzionale sarebbe comunque stata garantita, come affermato in una intervista a questo giornale dal ministro Calderoli. Non se ne farà più nulla? Amen. Ancora meno ci faceva palpitare l’esito del dibattito sui salva-ineleggibili, così lontano dall’interesse della gente da apparire mera e astrusa accademia istituzionale. Ciò che ci preoccupa è piuttosto cosa succederà da oggi in poi. L’aver approvato la manovra economica entro i termini di legge per la prima volta negli ultimi venti anni si derubrica a questo punto da virtù ad opportunismo: il bottino parallelo era ampio (salvo diventarlo in corsa ancor di più) e succulento, la spartizione scientifica e ben calibrata, tutti felici e contenti dentro a un selfie trasversale e via col varo. Poi si è trattato di cominciare a parlare di poltrone da occupare (i manager della sanità), salvare (i quattro ineleggibili) o riesumare (il ritorno delle Province) e il moderno selfie dell’inciucio ha lasciato il posto alle medievali durlindane delle pretese insoddisfatte. Un brutto spettacolo. Il solito spettacolo. Altro che Sanremo.