Venerdì 22 Novembre 2024

Purché non siano soltanto petali di rosa nel deserto

A dirla con le fredde cifre degli analisti di settore, il 2023 non è stato tutto sommato un anno negativo per la Sicilia. Certo, l’onda lunga della rinascita post pandemica ha già notevolmente ridotto la sua portata, effetto rimbalzo compreso. Mentre le tragiche scene di guerra che segnano Europa e Medio Oriente preoccupano non soltanto per l'assurda e inumana conta delle vittime, ma anche per gli effetti che possono produrre in termini di equilibrio socio-economico generale. La mente corre per esempio al dato sugli sbarchi dei migranti in Italia, che pur in correlazione non certo diretta con i fronti bellici, rappresentano comunque un termometro importante di quel succitato equilibro socio-economico globale: 155 mila arrivi sulle nostre coste fanno del 2023 uno degli anni più difficili dell'ultimo decennio. E però il segno più - non trascendentale ma comunque certificabile - sul Pil nostrano non può che attenuare i mugugni dei pessimisti di professione. Il traino di settori come l’export e il turismo ha avuto un’incidenza importante sull’economia isolana, al punto che il dato complessivo sull’occupazione segna una crescita senza uguali in tutto il Paese: quasi il 4%, il doppio rispetto alla media nazionale, in un generale contesto di miglioramento, con oltre 600 mila occupati in più rispetto al 2019, quando il Covid non aveva ancora iniziato a infettare l’intero pianeta. Insomma, i numeri qualcosa dovranno pur significare. E però è ancora poco e presto per lasciarsi andare a sperticati entusiasmi. La crescita in termini assoluti è comunque inferiore a quella del centro-nord, mentre per reddito e consumi la Sicilia resta agli ultimi posti fra le regioni italiane, con una forbice che dunque non accenna a stringersi. Bene, ma non benissimo, in definitiva. Con una previsione sul 2024 che - cavalcando si spera in maniera virtuosa il fattore Pnrr - potrà dare ulteriori benefici effetti in termini di sviluppo a vantaggio di famiglie e imprese. In un'Italia sempre più a trazione destracentro, con Giorgia Meloni premier mattatrice, con Forza Italia che – perso il suo imperatore - barcolla fra resistenza ed estinzione e con una Lega che tiene botta spesso «grazie» e altrettanto spesso «nonostante» il suo leader maximo. Mentre il fronte dell'opposizione si arrabatta fra una Schlein che proprio non riesce a scaldare i cuori, un Conte che prova ad affrancare i pentastellati dalle turbe post adolescenziali e un ménage Renzi-Calenda sempre più simile a una sorta di trasposizione politica di Casa Vianello. Del resto proprio la ritrovata e mai scontata stabilità politica dei governi - nazionale e siciliano - entrambi con maggioranze solide e allineati sui binari di una costante interlocuzione (Ponte a parte) soprattutto se paragonata alle siderali distanze degli ultimi lustri post berlusconiani, costituisce uno dei fattori che ha dato concreto e tangibile supporto a questa tendenza al segno più. Si tratta ora di non vanificare il lavoro fatto e ancor più quello pianificato. Perché se per esempio la manovra nazionale è diventata legge senza troppi scossoni, al punto da non doversi ricorrere all’abusata opzione del voto di fiducia e magari asportandone escrescenze pericolose (vedi il decreto ad hoc sul Superbonus per i redditi bassi che ha stoppato sul nascere qualche scricchiolio fra alleati), al di qua dello Stretto l’obiettivo di riuscirci prima del cenone di San Silvestro è stato ben presto accantonato. Niente di trascendentale, più per quieto vivere che per insormontabili disaccordi. Una sorta di temporale concessione diplomatico-politica alle opposizioni, che nelle dinamiche che ruotano attorno al varo del più importante provvedimento a carico di un governo ci sta senza troppe ipocrisie né conseguenze. È pur vero però che Renato Schifani il suo bel da fare ce l’ha eccome per tenere a bada le bizzose muscolarità del partito di maggioranza relativa. Onere che si trascina fin dal suo insediamento, con i famosi assessori imposti dallo stato maggiore di Fratelli d’Italia e sui quali comunque il presidente della Regione non ha mancato di far sentire la propria pressione, come dimostra il reiterato caso Scarpinato, più volte sferzato e stoppato, da Cannes ai musei passando per il teatro di Taormina. Nel frattempo Schifani ha comunque portato a casa risultati importanti, dalla crociata sul caro voli – fatta arrivare sui tavoli nazionali, mobilitando anche un paio di volte una tiepida Antitrust - alla rimozione delle forche caudine delle pendenze pregresse con Roma, che può ridare fiato a spesa e nuove assunzioni. Ma le battaglie ancora da vincere non mancano. Pensiamo per esempio a quella sui termovalorizzatori: Schifani vada avanti senza indugio, sentire il suo assessore parlare più di ulteriori discariche che di impianti di nuovissima generazione, mentre i camion fanno la spola con i Paesi del Nord carichi di immondizia a suon di milioni di euro non è prospettiva a cui intendiamo arrenderci. E speriamo neanche lui. Il suo bel da fare con gli alleati meloniani ce l’ha del resto anche il sindaco di Palermo, Roberto Lagalla. Che, trovata una faticosa quadra sui conti sfasciati del Comune capoluogo di regione, ha dovuto lavorare di cesello per ricomporre il puzzle di poltrone e poltroncine, cercando così di tenere buoni tutti. E nel frattempo, zitto zitto, ha raccolto nuovi adepti di particolare peso nella sua cerchia. A cominciare da quel Fabrizio Ferrandelli che fu fra i suoi più battaglieri e scomodi avversari del voto di un anno e mezzo fa. Il risultatone di rimuovere l'ignominia dei mille e più morti insepolti accatastati nei capannoni del cimitero è già agli archivi, ma ataviche emergenze palermitane restano più che mai attuali, a cominciare da una costante generale mediocrità dei servizi pubblici, dai rifiuti straripanti alle strade gruviera, dall'illuminazione carente ai trasporti inefficienti. Il tutto quasi sempre giustificato con l’alibi di costi insostenibili, bilanci asettici, burocrazie elefantiache e l'eterno e mai abiurato assioma dell'ente pubblico inteso come ammortizzatore sociale. Al punto che lo stesso Lagalla ha più volte sbandierato l'ipotesi privatizzazione agli occhi di manager pretenziosi, sindacati belligeranti e dipendenti non sempre impeccabili, come fosse un minaccioso spettro da cui difendersi. E invece bisognerebbe una volta per tutte cominciare a valutare seriamente l'opzione. Magari in parallelo ad un'azione più efficace ed incisiva nell'ambito della lotta all'evasione tributaria, Tari in testa. Nel frattempo Palermo ha anche riscoperto la paura. Una volta tanto non (solo) per il giogo mafioso, nell'anno della cattura e della morte di Messina Denaro ma anche della prima plateale spaccatura nel fronte antimafioso culminata nel rumoroso controcorteo del 23 maggio. È una paura che corre sul filo delicato e sottile del divertimento, di quella che è stata ormai ribattezzata malamovida: dallo stupro di gruppo del Foro Italico all'omicidio nel retro della discoteca, con in mezzo risse, baruffe, spaccate, pistolettate a ritmo settimanale. A determinare un generale senso di insicurezza su cui è bene intervenire subito e in maniera drastica, visto che la soglia della decenza e della civiltà si sta pericolosamente abbassando. Lo stesso concertone di fine anno con la stella Elodie a piazza Politeama alla luce di tutto ciò viene guardato con non poca apprensione non solo da chi dovrà garantire l'ordine pubblico ma, per lo stesso motivo, anche da chi ha comunque avuto il merito di portare a Palermo l'icona pop del momento. Nella speranza che questo tutto sommato discreto 2023, per dirlo con le parole della cantante, non rimanga solo un petalo di rosa nel deserto.  

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