Visionario e divisivo, ammaliatore e spregiudicato, illuminato e carismatico, idolatrato e avversato, amato e detestato, stratega e rivoluzionario, popolare e populista. Silvio Berlusconi è stato il personaggio più importante - in senso esteso ed eterogeneo, piaccia o meno – degli ultimi 40 anni della storia d'Italia. L'uomo dei successi e degli eccessi che ha determinato a modo suo e come nessun altro le sorti dell'imprenditoria, della televisione, del calcio, della politica, della cultura, della comunicazione, dello spettacolo, del costume e, perchè no, perfino della giustizia di quel Bel Paese che lui ha attraversato – e in buona parte traghettato - dalla Milano yuppie degli anni Ottanta al manierismo socio-politico del nuovo millennio. Un viaggio che Berlusconi ha compiuto nella storia a cavallo di due millenni. Con la fierezza del predestinato e il cilicio del perseguitato, per chi in tutti questi anni lo ha sostenuto e si è abbeverato alla sua corte. Con la boria dell'arrogante e la tracotanza dell'intoccabile, per chi invece ha indossato il mantello ideologico e carrieristico dell'antiberlusconismo. Nel 1994 della celebre discesa in campo, Berlusconi era già un uomo di straordinario e molteplice successo. Erano passati una trentina d'anni dall'apertura del suo primo cantiere edile a Brugherio, una ventina dalla nascita di Fininvest, una decina dall'avvio dell'epopea Milan e del salvataggio di Mondadori. A chi oggi dice che la sua morte equivale alla caduta del muro di Berlino della politica italiana va forse ricordato che quel muro lo abbatterono a picconate i magistrati di Mani Pulite. E che semmai Berlusconi si assunse l'onere e il merito di edificare una nuova cosa politica sulle macerie di Tangentopoli. In lui si incarnarono all'istante e si radicarono progressivamente le sensazioni e le disillusioni dell'elettore medio: la diffidenza verso la sinistra ideologizzata, gli apparati istituzionali, le tasse, la magistratura, i vecchi generali di partito. Sposò e cavalcò la voglia di svolta, indipendentemente da quale strada sarebbe stato necessario imboccare per raggiungerla. Purchè si uscisse da quel pantano. Il suo avvento certificò l'addio alla lunga stagione post bellica del compromesso storico e battezzò la nascita del bipolarismo. Un'era, quella dell'alternanza al potere - e dell'antagonismo da talk show- che non gli è neanche sopravvissuta: lui se ne va col bipolarismo che non esiste ormai più e con una sorta di riesumazione involuta e grossolana del compromesso storico, sotto forma di trasformismo usa e getta per accaparramento e aggrappamento al potere. Insomma, non era più la sua politica. O forse non lo era già più da quel drammatico 2011 quando, con lo spread oltre quota 500, Sarkozy e Merkel che ridevano di lui a favore di telecamere, Fini che se ne andava all'opposizione e un gruppetto di fedelissimi che lo tradivano alla prova del voto, Berlusconi decise di tirare il freno. Per salvare l'Italia, gli suggerirono amici e nemici. Per salvare anche le proprie aziende, gli sussurrarono figli e consulenti. Così, a malincuore e con non poca acredine, salutò per sempre Palazzo Chigi per lasciare il posto al governo di sicurezza nazionale affidato a Mario Monti. Berlusconi però non hai mollato. Ha affrontato le forche caudine dei suoi innumerevoli e spesso inverosimili processi, dalle olgettine del bunga bunga alle presunte collusioni mafiose, fino all'accusa di essere perfino stato lui l'ombra grigia dietro le stragi del '93, per spianare la strada alla nascita di Forza Italia e al suo trionfo politico. Al tirar delle somme, schizzi di fango e mascariamenti, teoremi e ipotesi, dubbi e incertezze, ma una sola verità giudiziaria: fra assoluzioni, proscioglimenti e prescrizioni, quell'unica condanna definitiva per frode fiscale, che la maggioranza dell'epoca non vide l'ora di fargli pagare a prezzo doppio, con la cacciata dal Senato. A Palazzo Madama c'è poi tornato, dopo la gogna, i servizi sociali e il passaggio da Strasburgo. E a Palazzo Madama è rimasto fino a ieri, prima guidando la faida - fallita - contro l'elezione di Ignazio La Russa e poi tornando al ruolo di metronomo di coalizione. Fino al suo ultimo discorso del 6 maggio, venti minuti programmatici nel set improvvisato in ospedale, per quello che è diventato adesso una sorta di lascito testamentario. Fino al vertice di coalizione che aveva deciso di ospitare in questi giorni nella sua villa di Arcore, dove invece ieri a pranzo è rientrato senza vita, rinchiuso in un monovan nero sotto scorta. Certo, il suo viaggio lungo 30 anni di politica è stato anche segnato da inciampi, imprevisti, errori strategici, qualche relazione diplomatica eccessivamente coltivata ed enfatizzata (Gheddafi, Putin). Berlusconi è stato indubbiamente il creatore illuminato del primo grande partito liberale di massa, una roba che in Italia fino ad allora non si era mai vista. Ma quel pensiero, quella visione, finirono irrimediabilmente per essere segnati dallo stillicidio delle inchieste giudiziarie – con la Procura di Milano in prima linea - che lo indussero a dover deviare in buona parte l'attenzione e l'impegno sulla difesa di se stesso e del proprio sterminato patrimonio. Cosa che faceva peraltro il paio con il varo, favorito da maggioranze parlamentari blindate, di leggi ad personam che soppiantarono ogni parvenza di riforma del sistema giudiziario spesso annunciata a gran voce e mai realizzata. L'uomo del conflitto d'interessi per antonomasia aveva già ottenuto anni prima dall'amico e testimone di nozze Craxi l'assist decisivo, sotto forma di decreto legge, per salvare il nascente impero televisivo su cui si infranse definitivamente la tirannia di mamma Rai. E lo sfruttamento delle sue reti tv fu strategico, se non determinante, per arrivare a parlare alla pancia della gente, per catturare sostegno e simpatia (non solo dai tifosi milanisti inebriati dai successi in serie dei suoi fuoriclasse), per cominciare a formare quella sorta di corte medievale che avrebbe traslato senza alcuna remora dal mondo frivolo dell'entertainment a quello ingessato della politica, cambiando per sempre quest'ultimo in senso pop. Da allora in poi, se sei famoso finisci per essere utile in politica, a prescindere dalle tue capacità politiche. Ovunque, a destra come a sinistra. Quella sinistra che ha costituito il mantra della sua disfida – il costante nemico da sventolare e contro cui richiamare alla lotta – e che è spesso finita invischiata e intrappolata nella tattica suicida dell'antiberlusconismo, in una sorta di nemesi ideologica e autolesionista. In tal senso, la Sicilia è stata forse l'esempio più plateale di questa dicotomia. Berlusconi qui come neanche nella sua Lombardia raccoglie il frutto più corposo e succoso della sua visione. La convention del marzo 1994 alla Fiera del Mediterraneo di Palermo costituì una sorta di Isola di Wight del nascente berlusconismo e aprì la via all'occupazione radicale di ogni piazza elettorale. Fino all'apoteosi del sessantuno a zero del 2001, con la sinistra annichilita e incapace di reagire politicamente, se non impugnando la fragile e sterile clava contro il presunto consenso paramafioso. Una costante che ha segnato tutte le sconfitte – tutte, nessuna esclusa – del centrosinistra al di qua dello Stretto, incapace di issarsi oltre il proclama denigratorio, che ci fosse o meno Berlusconi dall'altra parte. Resta a questo punto solo da capire che eredità e che spazi lascia il Cavaliere di Arcore, che volle farsi imperatore senza mai accontentarsi di essere re. Dunque senza mai pensare all'ipotesi e all'opzione di un erede. E non è tanto il destino dell'attuale partito-famiglia Forza Italia a far discutere (è morta la Dc, perchè dovrebbe essere immortale un partito che ha appena 30 anni di vita e consensi complessivi oggi sotto il 10%), quanto piuttosto quel grosso – e pericoloso – vuoto al centro che comunque la figura ingombrante e carismatica, seppur stanca, del Cavaliere contribuiva a colmare, contro ogni possibile deriva estremista e ben più delle scaramucce da scolaretti fra il Renzi o il Calenda di turno. Berlusconi era comunque ancora l'equilibratore del governo Meloni, ruolo determinante nell'assetto a tre, stretto fra le diligenti e inquadrate falangi meloniane e le ondivaghe bizzarrìe leghiste. Eccolo forse l'errore strategico più grave di Berlusconi: ha davvero creduto di essere un immortale highlander e come tale fino all'ultimo istante ha lottato da solo, senza risparmiarsi. Ora però dovrebbe toccare a qualcun altro. Già. Ma a chi? Gianfranco Miccichè, uno che a Berlusconi deve tutto (e a Berlusconi ha dato tanto) lo ha detto ieri senza timore di blasfemia: «Morto un Papa, se ne fa un altro. Morto Berlusconi, no». Complicato, ad oggi, dargli torto.