Nell'anno del ritorno della guerra in Europa e dell'uscita (ancora parziale) dall'incubo pandemico, del Mattarella bis e del trentennale delle stragi, dell'addio alla regina d'Albione e al re del pallone, dei mondiali di Messi col bisht e dei gruzzoli qatarioti nei sacchi di qualche incauto europarlamentare, anche la svolta a destra del Bel Paese si è ritagliata uno spazio epocale. Per qualcuno salvifico, per qualcun altro pericolosamente nostalgico. Nulla di rivoluzionario o reazionario, per ora. Sarà perché contingenze ed emergenze hanno imposto scelte immediate con vista sul presente, rimandando una più chiara marcatura della strategia di visione futura. In tal senso presidenzialismo e riforma della giustizia saranno forse gli ambiti in cui più netta si potrà testare l'impronta della (pardon, «del») primo premier donna della nostra storia.
L’Italia resta oggi in rotta su un solco già tracciato, senza la tentazione di esplorare lande ignote. La sterzata, almeno politica, c’è stata. Ma la strada da percorrere è ancora lunga. Nel frattempo l'atlantismo della Meloni – pur nella sua manifesta volontà di evidenziare comunque un assioma identitario nazionale - è forse l'aspetto per certi versi più sorprendente e allo stesso tempo più rassicurante nella linea del nuovo esecutivo. Quietati i pruriti anti europeisti delle frange più sovraniste della sua coalizione (e perfino del suo stesso partito), il premier ha fissato proprio in questo suo deciso posizionamento la linea di continuità con il governo dell'ecumenismo draghiano. E questo rassicura non poco quegli stessi mercati finanziari, che alla svolta destrocentrista (e speriamo non troppo centronordista) guardavano con non poca inquietudine. Una cosa che, a dispetto di chi superficialmente - e banalmente - identifica nei palazzi del potere finanziario globale il Male assoluto, non può che giovare parecchio alla nostra stabilità economica. Per certi versi, proprio i dettami conservativi e stabilizzatori su cui poggia la manovra economica appena varata sono la chiara dimostrazione che la fase della frenetica volontà di rottura col passato e dell'imprinting immediato a ogni costo sembra per fortuna superata. Dal reddito di cittadinanza alle ong, dai pos ai rave (il cui decreto approvato ieri comprende anche l'opportuna norma sull'ergastolo ostativo, che assurge anche a valore simbolico, a chiudere in maniera tangibile e sostanziale le commemorazioni per il trentennale delle stragi di Capaci e via D'Amelio): il frettoloso bulldozer iniziale ha lasciato il posto a una più attenta e metodica valutazione di scelte comunque di discontinuità. Che altro poi non è che il metodico buonsenso che deve guidare ogni responsabile azione di governo.
Quello stesso buonsenso che il mite ma deciso Renato Schifani sta provando ad adottare nel traghettamento della Regione oltre il pantano degli smodati personalismi e delle alchimie economiche che avevano caratterizzato il progressivo declino della precedente legislatura. La surreale faida forzista cui si continua ad assistere non ha eguali né precedenti: un presidente della Regione apertamente osteggiato dal coordinatore del suo stesso partito, fino ad arrivare all'apoteosi della scissione del gruppo parlamentare, non è certo il miglior viatico per definire stabilità amministrativa su scelte condivise. Un vulnus che dovrà prima o poi trovare soluzione, ristabilendo il responso elettorale e lasciando alla vera opposizione (al netto di quella che sbraita in pubblico e inciucia in privato) il ruolo di baricentrica vigilanza e democratica garanzia. Lo stesso accordo con lo Stato per raddrizzare i malmessi conti di Palazzo d'Orleans può apparire controverso, ma è comunque una soluzione, al di là della sua bontà, che resta opinabile come ogni scelta politica: diluire un enorme debito in dieci anni aiuta a garantire una governabilità in equilibrio economico, ma è chiaro che un minimo di dazio va pagato. E ad oggi il blocco reale del turn over in una macchina burocratica ormai anziana e non certo allo zenit dell'alfabetizzazione digitale appare forse una conseguenza più dolorosa di quella vagamente più virtuale della rinuncia a vecchi crediti con Roma, di cui in realtà esiste l'alone ma non la definizione. Del resto, se per riuscire a manovrare il carrozzone dei progetti del Pnrr continua il reclutamento di figure professionali esterne, evidentemente il rischio di un progressivo inceppamento della macchina burocratica è più che reale. Non ce lo possiamo consentire. Anche perché alla Regione adesso si tratta di cominciare a definire finalmente scelte decise. E decisive. A cominciare dalle grandi infrastrutture. Non solo pubbliche. Non solo Ponte, per intenderci. L'attenzione di svariate multinazionali ai vantaggi determinati da investimenti in Sicilia – dai rifiuti al turismo, dal voltaico all'eolico – non può continuare a essere irrimediabilmente frustrata e compromessa da integralismi ideologici e politici privi di visione. Tantomeno da gerontocrazie procedurali che garantiscono gli apparati, tutelano interessi più o meno torbidi e uccidono lo sviluppo.
Giova ricordare che la crescita in Sicilia fa atavica fatica. Gli ultimi dati Istat marcano una ancor più netta distanza con le regioni del Nord in termini di investimenti, spese e consumi. Siamo quart'ultimi in Italia per crescita del Pil nel 2022 (con un pro capite di poco superiore ai 17 mila euro, drasticamente inferiore a quello nazionale che è vicino ai 28 mila euro). Ma, soprattutto, siamo tristemente primi per tasso di inflazione. Con previsioni che ad oggi non inducono certo a sperticati ottimismi. Conforta parzialmente solo il dato sull'occupazione, con una crescita di poco meno del 5 per cento rispetto all'anno precedente (ma la media nazionale resta pur sempre a siderale distanza), cui ha giovato non poco una corposa rivitalizzazione del comparto edilizio, dovuta soprattutto agli effetti del superbonus. Ma per quanto ancora?
Se al 2022 si volevano affidare le speranze di una definitiva ripresa, che pure pareva avviata sulla via dell'uscita dal tunnel della pandemia (che però a sua volta torna a riempire pericolosamente le cronache quotidiane prima ancora delle corsie ospedaliere), i devastanti effetti dell'assurda guerra in Ucraina hanno svuotato i serbatoi della rinascita, oltre che i gasdotti di mezza Europa e le tasche dei consumatori, fiaccati a loro volta da bollette insostenibili e da un mercato libero con qualche speculazione di troppo. A proposito di speculazioni: conforta l'azione avviata dall'Antitrust contro il caro voli da/per la Sicilia, nell'auspicio che il pacchiano «comportamento collusivo» delle compagnie per far volare non solo gli aerei ma anche le tariffe, abbia chiara e sostanziale concretizzazione in chiave sanzionatoria.
Insomma, ancora una volta ci stiamo fatalmente consegnando a un futuro prossimo di tanti dubbi e poche certezze. Ma siccome, per dirla con le parole di Paulo Coelho, «mai nessuna notte è tanto lunga da non permettere al sole di sorgere», tanto vale ripartire intanto dall'augurio di un... Buon 2023.
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