Altro che granaio romano. Così l'avevamo mestamente definita su queste colonne lo scorso 23 agosto, quando ne certificavamo la colonizzazione elettorale, con la chiusura delle liste per le politiche, infarcite - a destra come a sinistra - di paracadutati, papi stranieri e zingari del voto. Due mesi dopo, con la nomina dei sottosegretari a completare il puzzle del governo, abbiamo la desolante certezza che eravamo stati perfino fin troppo benevoli: la Sicilia è periferia marginale dell'impero, una remota crosta di terra dove far pascolare i procacciatori di voti al soldo delle segreterie capitoline. Per colpa non tanto di quelle stesse segreterie, quanto soprattutto dei loro marescialli siciliani. Litigiosi, inaffidabili, umorali, opportunisti, poveri di carisma e privi di visione prospettica oltre i confini del proprio circolo elettorale.
Risultato: un solo ministro e un solo sottosegretario siciliani. Punto. Il primo è quel Nello Musumeci che - svestiti suo malgrado i panni di governatore – si è ritrovato a derubricarsi da «Diventerà Bellissima» a «Diventerò ministro»: ha incassato il risarcimento promessogli da Giorgia Meloni per spegnere la faida siciliana ed eccolo al tavolo circolare di Palazzo Chigi. E pazienza se, da ministro senza portafoglio per le Politiche del Mare e per il Sud, non si capisce ancora di cosa dovrà occuparsi, se è vero che i porti sono feudo di Matteo Salvini e le iniziative regionali coperte dai fondi di coesione competono a Raffaele Fitto. Il sottosegretario? La forzista messinese Matilde Siracusano, a cui è stata assegnata la virtualissima delega dei Rapporti con il Parlamento, cioè un ruolo di mera rappresentanza e poco altro. Fine. A meno che non ci sia qualcuno che abbia il coraggio di spacciare per rappresentanti siciliani il ministro Adolfo Urso, nato a Padova e che ad Acireale ha trascorso solo l'adolescenza o il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, messinese di nascita, ma romano d'adozione ed eletto... in Puglia. Non ci resta che affidarci quindi al neo eletto presidente della Regione Renato Schifani, che certamente non farà anticamera dietro le porte romane quando ci sarà da incontrare e discutere con i tanti ministri di peso con cui vanta rapporti diretti e personali, costruiti in tanti anni di attività parlamentare in prima linea.
Più che imputare al premier scelte non proprio gratificanti per la quinta regione d'Italia per popolazione e la prima per estensione, è proprio al di qua dello Stretto che vanno identificate colpe e colpevoli. Per quello che non è solo un caso, ma una chiara tendenza (tre ministri siciliani in entrambi i governi Conte, nessuno nel governo Draghi). Ma se alla Lega in fondo non granchè si poteva chiedere a queste latitudini (anche se Antonino Minardo forse qualcosa se l'aspettava) e Fratelli d'Italia ha comunque piazzato una casellina ministeriale, il caso più plateale di recessione è quello che riguarda Forza Italia, capace di rimediare la miseria di un sottosegretariato di retrovia. Non proprio un bottino da medaglia per il suo vicerè di lungo corso Gianfranco Miccichè. Che ha prima squassato gli equilibri di coalizione con la sua personalissima faida contro Musumeci, finendone però stritolato, visto che dopo aver snocciolato vari possibili nomi di candidati alternativi a lui vicini, si è alla fine fatto imporre il nome del non proprio amatissimo Schifani direttamente da Arcore. E questo mentre parallelamente avallava senza battere ciglio la robusta calata dei paracadutati nelle liste per le politiche, che ha portato all'elezione in Sicilia di lady Berlusconi Marta Fascina, Stefania Craxi, Michela Brambilla o lo stesso Giorgio Mulè, che è nisseno di nascita ma non ha mai fatto politica attiva in Sicilia e 4 anni fa era stato eletto in un collegio ligure. Cosa che ha finito per stritolare nomi pesanti come quello di Stefania Prestigiacomo o Marco Falcone. Ma non è finita qui: Miccichè ha perso il treno della vicepresidenza del Senato dopo aver indossato i panni del falco nei giorni turbolenti dell'elezione di Ignazio La Russa a Palazzo Madama, ha gigioneggiato sulla scelta Senato o Ars ed è finito fuori dalla lista dei sottosegretari, ha cercato sponde per un'eventuale colpaccio trasversale in aula per una presidenza bis, ha tirato per la giacchetta Schifani per un assessorato di peso come la Sanità. Ad oggi non è ancora dato sapere quale sarà la sua sorte, mentre anche sul suo smartphone sarà certamente finito il messaggio che rimbalza nelle chat forziste al grido di «siamo stati azzerati, non ci sentiamo più rappresentati, Berlusconi ci ha venduti».
Insomma, ci attendono cinque anni difficili, in cui la Sicilia dovrà arrancare e sgomitare per provare a ritagliarsi spazi di manovra e di praticabilità nelle strategie di governo del Paese. Con una serie di emergenze economiche, sociali e gestionali che avrebbero meritato ben altro peso nel bilanciere delle scelte. Il problema è che qui il bilanciere è sparito. Per lasciare spazio al bilancino degli interessi di bottega. C'era una volta la Sicilia laboratorio politico d'Italia. Adesso hanno pure svuotato il granaio. Roma è mai stata così lontana? Altro che Ponte sullo Stretto...
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