Non ha ancora un parlamento regionale operativo a supporto. Anzi, non c'è proprio nemmeno la parvenza dell'Ars, imprigionata dall'assurdità di uno scrutinio che a quasi un mese dal voto è ancora formalmente non completato. Non ha, di conseguenza, una squadra di governo già in campo, né esiste ancora lo straccio di una ipotesi che non sia oggi un mediatico toto-assessori e nulla più. Ha per questo prorogato i capi di gabinetto uscenti, affinché almeno qualcuno regga le fila del traghettamento gestionale. Che in questa fase embrionale sta consegnando a Renato Schifani, uomo solo al comando, le prime inevitabili (e preventivabili) grane da presidente. Segno tangibile di un'eredità pesante, che sconta a caro prezzo il clima di plateale ostilità e rissosità che ha accompagnato almeno i due terzi della legislatura precedente.
Quell'ingestibile – e alla lunga deleteria - convivenza fra Nello Musumeci e Gianfranco Miccichè, che ha finito per incidere in maniera determinante sul flusso amministrativo della cosa pubblica in Sicilia. Con molti nodi rimasti irrisolti e altrettanti che si stanno pericolosamente avvicinando al pettine.
Ecco perché sarebbe fin da subito indispensabile scongiurare il pericolo – non remoto, temiamo – che aprire una nuova stagione di bisticci e ripicche, fra sgomitamenti e primazie, possa continuare a fare girare a vuoto la macchina Sicilia. E lo stesso Schifani lo sa. Almeno da quella sera di agosto in cui l'endorsement di Giorgia Meloni, l'annuncio urbi et orbi di Ignazio La Russa e la benedizione di Silvio Berlusconi lo hanno proiettato nell'agone del voto post Musumeci. Sa fin da allora che è proprio all'interno del suo partito che va trovata una pacificazione, che tutti in Forza Italia derubricano a gossip giornalistico, ma che in realtà sembra lungi dall'essere acquisita. E fatalmente tutto gira proprio attorno alla figura ingombrante di Miccichè: che non può certo essere considerato lo sponsor di Schifani (nelle notti agostane delle scelte fece un pressante ma vano tentativo di dissuaderlo dall'accettare la candidatura) e che negli ultimi dieci giorni non ha mancato di far sentire incombente e determinante il suo ruolo. Prima indossando i panni del falco a Palazzo Madama nelle ore della contestata elezione del presidente, poi ventilando possibili contromosse siciliane per lavare la presunta onta meloniana contro il Cav (a cui ha giurato totale devozione, al punto da avallare la calata di qualche paracadutato di troppo nei collegi delle politiche), quindi lasciando a lungo latente la sua decisione se optare per lo scranno senatoriale o quello della sua amata Sala d'Ercole. Salvo adesso dire che lui a Roma non ci vorrebbe proprio andare, preferendo continuare a tessere le fila del partito al di qua dello Stretto. Anzi, di più: cercando pure sponde trasversali - dicono i bene informati - per tenersi anche la guida dell’aula. Ambizione legittima, per carità. Ma che possa essere la migliore per provare a rasserenare l'avvio della nuova legislatura sotto il segno della concordia di coalizione sarebbe eventualmente tutto da dimostrare. Non crediamo si arriverà mai agli epiteti e agli stracci come con Musumeci, ma è chiaro da tempo che Schifani lo accompagnerebbe volentieri di persona fin sulla soglia di quel Palazzo Madama che lui conosce come le proprie tasche.
Il rapporto privilegiato creatosi fra il neo presidente della Regione e lo zoccolo duro di Fratelli d'Italia può forse dar fastidio a una certa area forzista, ma tutto sommato serve per cementare la solidità della maggioranza uscita dalle urne e del conseguente governo dell'Isola. Certo, i segnali che arrivano da Roma con le esternazioni a ruota libera di Berlusconi, non aiutano. Ma, in attesa che l'Ars si insedi e la giunta prenda corpo, restano urgenze irrisolte, emergenze ataviche e grane incombenti. Schifani non aveva ancora messo piede a Palazzo d'Orleans che si è ritrovato con il giubbotto della Protezione civile addosso fra i disastri del maltempo del Trapanese, paradigma di una gestione del territorio in chiave di tutela e salvaguardia che lascia un po' a desiderare in tutta la regione. Fra qualche giorno sarà chiamato a fare scelte - più o meno precipitose e di certo non ancora programmatiche – sull'annosa questione dei rifiuti, con discariche sature ovunque e camion di munnizza da smistare chissà dove. Sui fondi del Pnrr sta venendo drammaticamente fuori l'impossibilità degli uffici – sguarniti e inadeguati – di gestirne il processo, mentre i tempi si accorciano e il rischio che quella vagonata di soldi venga dirottata altrove aumenta. Il calo di tensione sull'emergenza Covid – come ha ampiamente denunciato ieri questo giornale – ha paralizzato la macchina col serbatoio già pieno di 100 milioni di euro per potenziare ospedali e pronto soccorso. E incombe ancora un giudizio di parifica della Corte dei Conti che – pur riferito a bilanci vecchi di due anni – potrebbe gravare pesantemente sulla programmazione economica che Schifani intenderà darsi a regime. Questo e tanto altro. Che il nuovo presidente si sarebbe trovato a dover ereditare la guida di un barcone ancora alle prese con mari procellosi si sapeva. Se proprio per questo motivo ci potessimo almeno risparmiare le vecchie beghe muscolari e gli eccessi di protagonismo che su quei mari ci hanno condotto, avremmo magari guadagnato qualche step nel difficile processo di (speriamo) ripresa e rilancio. Ci riflettano i tanti irrisolti Gian Burrasca – graduati e non - della politica siciliana.
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