C’è una legge elettorale che scippa agli elettori il diritto sacrosanto di scegliersi il candidato per cui votare: tutti la bistrattano e la sbertucciano, ma alla resa dei conti guai a toccarla, ai pupari della politica va benissimo così, le marionette le piazzano loro e amen. C'è una riforma figlia della demagogia, varata quasi per caso due anni fa, quando alla bandiera populista dei Cinquestelle si aggrappò il sempiterno opportunismo del Pd, più per mero tornaconto (stringere un patto di governo e sfrattare Salvini) che per reale convincimento politico, figurarsi se ideologico: quella riforma ha cancellato 345 dorati scranni dall'emiciclo di Montecitorio, succursale di Palazzo Madama compresa, finendo solo per far scorrere il sangue nelle segreterie dei partiti al momento di definire le nuove candidature. C'è infine l'imbelle atteggiamento – ed evidentemente l'insussistente peso politico assoluto - dei leader locali di partito, capaci di ergersi a muscolari boss del voto entro i propri confini, salvo poi chinare il capo silenti e deferenti, dinanzi alle scelte che piovono dall'alto. C'è tutto questo nello sconfortante scorrere dei nomi nelle liste appena depositate per le politiche del 25 settembre. In cui di Sicilia, di quella Sicilia che un tempo chiamavano laboratorio politico e che oggi è tornata ad essere solo il granaio romano che fu ai tempi dei Cesari, c'è poco e anche meno.
Li chiamano paracadutati. Sono solo amici e fidanzate, figli e pupilli, parenti illustri e cognomi da sventolare come vessilli. Tutti zingari della preferenza, candidati in collegi di cui conoscono a malapena l'allocazione, magari dopo una spulciatina all'Atlante o a Google Map. Blindati e garantiti per Roma. Rapporto col territorio pari a zero. E così a rappresentare interessi ed urgenze, emergenze e priorità della nostra Isola – non proprio l'Eldorado sociale ed economico dello Stivale – potremmo ritrovarci la bionda compagna calabrese del Cavaliere o la diva romana del cinema che fu, i figli milanesi del vate storico del socialismo morto in esilio o la pugliese che fu ministro dell'agricoltura e divenne poi viceministro delle infrastrutture, l'ex democristiano campano di lungo corso virato a destra o la ligure già leader nazionale della Cisl. E ci fermiamo qui per mera decenza, ma l'elenco è lungo, desolatamente lungo. Tanto quanto quello dei siciliani rampanti o di lungo corso che per questo motivo sono stati non troppo gentilmente messi alla porta.
Ragioni di opportunità e mero calcolo, che nulla hanno a che vedere con la tutela diretta degli elettori chiamati a sostenerli. Intendiamoci, non è un fenomeno solo siciliano, tensioni e malumori si stanno manifestando in molte altre regioni, soprattutto quelle alla periferia dell'impero. I posti a banchetto si sono ridotti e c'è da far spazio a tanti. Generali e marescialli così sono chiamati a spartirsi le colonie. Ma in Sicilia il fenomeno assume proporzioni ancor più sconfortanti. Che travalicano i confini stessi del solo recinto delle Politiche. Basti vedere cosa sta succedendo per le parallele regionali, crocevia fondamentale per il futuro di questa tormentata terra, eppure trattato alla stregua di un poco più che fastidioso applicato nelle stanze romane. Il clamoroso papocchio di queste ultime ore nel centrosinistra è figlio naturale di questo definitivo soggiogarsi a logiche centralizzate. Nelle stesse ore in cui Conte e Letta andavano agli stracci, mandando all'aria il governo Draghi e con esso gli equilibri faticosamente raggiunti dal sistema Italia del post Covid, in Sicilia si celebravano le più surreali primarie dell'ormai defunto campo largo. Meno di un mese dopo si è sbriciolato tutto, i diktat romani – firmati dall'indecisionista Conte - hanno prevalso: la vincitrice Caterina Chinnici medita di ritirarsi dalla corsa, mettendo nei guai il Pd che ha il suo nome tatuato nel simbolo; la sua rivale pentastellata ai gazebo Barbara Floridia si vaporizza e lascia il posto al proprio referente regionale Nuccio Di Paola; il terzo incomodo Claudio Fava (che, incredibile ma vero, addita la deriva giustizialista nella formazione delle liste) scalda i motori, in attesa di capire se da solo o con chissà chi. Meglio straperdere divisi che provare a non perdere insieme, insomma, atavica abitudine autolesionista di una sinistra carica di tormenti e povera di costrutto.
Anche nel centrodestra, del resto, la scelta finale è calata dall'alto: mentre qui Miccichè e Musumeci duellavano in singolar tenzone e si snocciolavano nomi di candidati a ripetizione (e a vanvera), a Roma la Meloni twittava anatemi, ad Arcore Berlusconi chiedeva e otteneva la disponibilità di Schifani e fra una pagina e l'altra della Gazzetta dello Sport sfogliata in aula La Russa ne annunciava serafico il nome ai giornalisti. Così è deciso. Fine.
Ma in attesa di conoscere entro venerdì le liste per le regionali – almeno lì i Papi stranieri non dovrebbero trovare cittadinanza, vivaddio - che cosa dovremmo dunque andare a raccontare adesso ai quattro milioni e mezzo di elettori siciliani che il 25 settembre - a queste latitudini piena estate – dovranno (scegliere se) andare alle urne per designare i propri referenti romani? Non ci sogniamo neanche di invitarli a boicottare i seggi, pur temendo comunque una pericolosa deriva astensionista che bene di sicuro non fa a prescindere. E però un altolà forse è il caso di lanciarlo: scegliete bene su chi puntare, una accreditata patente di sicilianità – a destra, come al centro, come a sinistra – sarebbe più che mai utile pretenderla. Non garantiamo che gli indigeni siano migliori dei candidati con la valigia, ma almeno non avremo rinunciato a priori. Certo, è vero, il sistema elettorale depotenzia (eufemismo) la preferenza. Ma il segreto dell'urna consente tante di quelle alternative costituzionalmente riconosciute al voto di resa da colonizzati...
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