La difficile partita delle elezioni anticipate e le emergenze dell'Isola nell'editoriale del direttore del Giornale di Sicilia, Marco Romano, pubblicato sul quotidiano oggi in edicola. Dunque adesso il re è nudo. Le dimissioni anticipate di Musumeci non chiudono affatto la partita nel centrodestra. Anzi, ne abbattono le cateratte della disfida interna alla ricerca di un candidato con cui vincere o perdere le prossime regionali. Perché che la coalizione di maggioranza - arrivata con parecchi sfaldamenti alla fine anticipata di questa legislatura - abbia in mano il proprio destino, poco sembra in dubbio: un buon candidato non divisivo e la partita è vinta; un approdo alle urne a ranghi sciolti, con l'ulteriore erosione firmata Cateno De Luca, e per il centrosinistra si possono prefigurare scenari di successo al momento improbabili. Purché Pd e M5S decidano di provare a vincere insieme e non perdere ognun per sé. Il countdown lanciato ieri da Musumeci in 8 minuti e 29 secondi di monologo su Facebook - pulpito-fortino ormai scelto dai politici allergici al dibattito e al contraddittorio - segna già -20. Tanti (cioè pochi) sono i giorni entro cui bisognerà presentare formalmente le candidature per dar vita alla diciottesima legislatura in tre quarti di secolo di autonomia siciliana. Il tutto in parallelo con le politiche, un mix micidiale che chiamerà i partiti ad acrobatici straordinari ferragostani per far quadrare le liste. E le alleanze. Già, le alleanze. Nel centrodestra poco finora sembra essere servita la lezione delle recenti comunali di Palermo: cinque candidati rimasti in corsa a un mese dal voto, tutti contro tutti, poi la necessità estrema di sintesi che ha lanciato verso la vittoria Roberto Lagalla e ha contemporaneamente chiuso una tregua a due tempi. Il primo si sta faticosamente risolvendo con l'assegnazione di poltrone e poltroncine, fatalmente inferiori al numero di pretendenti, all'ombra della Conca d'Oro nell’anno uno dell’era post orlandiana; il secondo tempo comincia a giocarsi davvero appena adesso. Ancor più in ritardo, cioè. La rosa straripa: Stefania Prestigiacomo, Renato Schifani, Nino Minardo, Alessandro Pagano, Luca Sammartino, Massimo Russo, Raffaele Stancanelli. Chissà chi altro ancora, perfino lo stesso Gianfranco Miccichè. E poi ancora lui, il convitato di pietra Nello Musumeci. A cui hanno detto tutti apertamente no, ma che resta abbarbicato a un vecchio sì - oggi un po' più sbiadito - di Giorgia Meloni (non a caso unico leader citato e ringraziato durante le video-dimissioni). Il gioco ad incastro con le imminenti politiche e con il futuro prossimo di Regioni chiave come Lombardia o Lazio non consentirà certo di giocare e chiudere la partita esclusivamente al di qua dello Stretto. E stavolta la favoletta del laboratorio siciliano poco regge. A Roma il centrodestra ha deciso, diventa premier chi prende più voti fra i tre leader e amen. Qui invece la legge impone di indicare il candidato presidente in anticipo e siamo così nel pieno dei giochi muscolari che poco sembrano avere a che vedere con progetti politici e programmi amministrativi. L'infinita telenovela Miccichè-Musumeci è andata talmente oltre che ha finito per sfociare in beghe, ripicche e sgarbi dal forte sapore personalistico. Con un paradosso, quello sì, molto siciliano: il governo più stabile della storia (pochissimi assessori politici cambiati in cinque anni) è anche il governo più inviso alla stessa maggioranza che avrebbe dovuto sostenerlo. Quasi mai questioni di merito, quasi sempre questioni di metodo. A prescindere dalla valutazione del contenuto – il giudizio, si sa, è sempre molto opinabile e soggettivo, se non per gli autoreferenziali depositari della verità secondo loro - esiste un serio problema di contenitore. Che poi è anche il problema del fronte avverso. Le primarie più surreali che si ricordino portavano sparuti gruppetti di elettori di centrosinistra ai gazebo mentre a Roma si mandava a carte quarantotto ogni equilibrio interno, nonché il governo dell'intero Paese. E così un minuto dopo la vittoria di Caterina Chinnici, non si sapeva già più se lei e solo lei sarebbe stata l'avversario principale in ottica bipolare dell'ignoto portabandiera del centrodestra (dubbio che rimane ancora oggi insoluto). Con l'outsider De Luca a recitare il ruolo dell'aspirante Masaniello un po' bizzoso e un po' umorale (con Vittorio Sgarbi e Dino Giarrusso il feeling è durato poco meno di una strizzata d'occhio). Intendiamoci, non sarà andare a votare due mesi prima o due mesi dopo che muterà le priorità di questa disgraziata terra, ne rideterminerà le emergenze o ne ridefinirà urgenze e prospettive. Certo però è che gli scenari attuali non aiutano a intravedere la luce oltre il tunnel. E così si finisce ancora una volta per parlare di potere senza parlare minimamente di programmi. Ma tanto ormai chi si meraviglia più? Ad oggi non sappiamo ancora fra chi scegliere il 25 settembre. Figurarsi se sappiamo per quale motivo sceglierlo/a.