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La politica dei tanti nani

L'aula di Montecitorio

Che fosse una crisi di princìpi e non di numeri lo avevamo teorizzato su queste colonne appena sei giorni fa. La tragicommedia parlamentare delle ultime 48 ore lo ha confermato. Il governo di unità nazionale poteva arrivare operosamente a fine legislatura. Solo che l’esecutivo guidato da Mario Draghi, il problem solver scomodato da Mattarella in un momento critico di grave instabilità politica, aveva il tarlo al suo interno. Nella genesi di una legislatura fra le peggiori di sempre della storia repubblicana, intrisa di populismo e approssimazione, fra liquide nevrastenie e miope nanismo. Una generazione parlamentare incapace di guardare prioritariamente agli interessi collettivi del Paese, se questi si spingono appena oltre gli strumentali confini dei propri tornaconti da bottegari.
Tutto era cominciato con la surreale alleanza gialloverde fra Di Maio e Salvini, che aveva partorito il bruco Conte. Il quale, fattosi farfalla, aveva mollato la sponda leghista con tanto di anatema d’aula contro l’ex rissoso alleato oratore senza filtri del Papeete e aveva agganciato la sponda buonista dell’accordo con il sempre placido e accomodante Pd. Dal gialloverde al giallorosso, ma senza tener conto della variante Renzi. E allora di nuovo tutto in malora e non certo per colpa - anzi con l’aggravante - del Covid.

Mattarella a quel punto si tira fuori l’asso Draghi e prova a ricucire ecumenicamente lo sbracamento imperante. Funziona, l’Italia riparte, ritrova credibilità, si rimette al galoppo come nessun altro nella Ue, si conquista la fetta più grossa del polpettone Pnrr. Ma ai nani di Montecitorio interessa ben altro. A Conte, depotenziato dal secessionismo pentastellato, salta la mosca (che del Grillo non c’è più traccia) al naso e cerca di riprendersi la scena. Solo che, come sempre accade a chi oltre a essere povero di background è anche incapace di leggere le istruzioni per l’uso, il giocattolo gli esplode in mano. Perché a Draghi poco interessano i giochetti della bassa politica e lancia l’altolà. E così mentre l’emorragia nei Cinquestelle si aggrava, sulle vicine sponde si scatena la contromossa. Salvini, terrorizzato dall’avanzare dei consensi meloniani, detta il suo diktat, riuscendo a trascinarsi dietro anche l’ultaottuagenario e poco reattivo Berlusconi. Risultato: frana tutto e perfino Forza Italia perde pezzi storici del suo antico fortino (Gelmini, Brunetta, Carfagna). Mentre Letta, consapevole delle fondamenta fragili di un Pd che da solo non va da nessuna parte, piange le lacrime di chi viene balzato giù suo malgrado dal treno vincente.
E adesso? La patata bollente è rimbalzata ancora nelle mani del solito Mattarella, che già da mesi avrebbe dovuto fare il nonno a tempo pieno, se non fosse che i nani della XVIII legislatura non sapevano più a un certo punto dove mettere le mani. E il suo «non sono possibili pause nel momento che stiamo attraversando» racconta da solo tutto l’imbarazzo del Capo dello Stato, il disappunto delle diplomazie internazionali, la preoccupazione dei mercati, lo scoramento del tessuto economico e lo sbandamento del corpo elettorale. Che sarà ora chiamato a fare scelte senza sapere da che basi partire. Perché il Draghi inviso ai destrutturatori a prescindere e ai destabilizzatori di professione, alle mezze tacche populiste e agli avventizi della res pubblica, ai casinisti e ai marchettari, dovrà ora meritare un successore capace di non sbrindellare quel che rimane in piedi. Nel frattempo toccherà a lui traghettare il Paese fino al 25 settembre con «immutata determinazione, per favorire il lavoro del governo che ci succederà». E già questo un po’ conforta. Perchè il ritorno al voto, è vero, è sempre un grande atto di democrazia partecipativa. Quindi evviva il voto. Tranne però quando sublima il vuoto. Basteranno 65 giorni per colmarlo?

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