Non è una crisi di numeri. Quella che in piena estate si sta aprendo è solo una crisi di princìpi. Perchè Draghi potrebbe benissimo andare avanti anche senza le residue e disarticolate truppe pentastellate. Reduci di un partito, pardon movimento, che quattro anni fa – in tanti - volevano spappolare il vecchio e vituperato sistema politico italiano e finiti adesso – in pochi - a minare gli equilibri di governo in un momento particolarmente tormentato per l'intero assetto economico italiano. Eppure il premier su cui ha scommesso Mattarella e che ha varato un esecutivo di unità nazionale indigesto solo ai meloniani, sembra proprio intenzionato ad arroccarsi su un no che a molti appare anche fin troppo rigido. Niente governo senza il M5S? E perchè mai, in fondo? Non è che ci sia da stare allegri, né ci sarebbe da cincischiare più di tanto. La guerra in Ucraina e il nostro ruolo nella Ue, la crisi energetica e l'impellenza di trovare alternative al gas russo, il caro delle materie prime, l'inflazione in ascesa, il potere d'acquisto delle famiglie in picchiata, il carrozzone del Pnrr che rischia di deragliare rovinosamente. Il tutto mentre c'è da imbastire il «decreto luglio», con le sue misure urgenti che non possono aspettare la manovra di bilancio, con quest'ultima che diventa a sua volta il vero grande punto interrogativo, in flagranza di crisi politica. L'auspicato taglio del cuneo fiscale, le scelte sul superbonus, i 200 euro di bonus da (forse) replicare, le riforma dell'Iva o dell'Irpef, il nodo pensioni. C’è troppa carne al fuoco, insomma, perchè non si debba provare a convincere Draghi a recedere dalla sua – ribadiamo – questione di principio. Facendo serenamente a meno delle bizze, degli sgarbi e delle ripicche di Conte (che quello scambio di campanella se l’era fin da subito legato al dito) e dei suoi. I quali a loro volta devono ancora decidere come andare a letto la sera ed alzarsi la mattina: dal Senato escono per non votare il Dl Aiuti l’altroieri, dal governo forse (ieri mattina), anzi no (ieri pomeriggio), e la fiducia la potrebbero perfino rivotare mercoledì. Non a caso, dal Pd alla Lega, da Forza Italia alle tante galassie centriste, nessuno urla al voto a tutti i costi, anche se il centrodestra sposa subito la tesi del M5S fuori dalla maggioranza. Al voto vuole invece andare senza indugi FdI, coerentemente con la propria mai ambigua posizione. In fondo anche Mattarella aveva già fatto i bagagli. E poi, a furor di popolo e per amor di Patria, si è rimesso lì a tessere pazientemente la tela degli italici equilibri dall'alto del Colle. Proprio il Quirinale potrebbe giocare l'unica vera carta capace di convincere (precettare?) Draghi, magari chiamandolo ad accompagnare il Paese alle elezioni, senza doversi inventare nuove alchimie a Palazzo Chigi. Che Mattarella possa respingere una seconda volta le dimissioni è cosa probabile, oltre che plausibile, magari sciogliendo le Camere e cominciando fin da ora a pensare a una data autunnale per il ritorno alle urne. In quel caso Draghi, non essendo stato sfiduciato, resterebbe con pieni poteri fino all’arrivo del successore. Ne hanno parlato i due, nel segreto delle stanze quirinalizie, non c'è dubbio. Ma in autunno, non dimentichiamolo, si vota anche in Sicilia. Reggerà il campo largo demostellato con cui la coalizione – se esiste ancora – si approssima tiepidamente alle primarie? E come si potrà ancora giustificare alle segreterie romane un accordo al di qua dello Stretto, esattamente negli stessi giorni in cui si consuma il divorzio fra un disilluso Letta e un ostinato Conte, con Di Maio nel mezzo a godersi lo spettacolo? La politica è arte fluida, quasi liquida. Ma in un’estate così calda e secca rischia di impantanarsi tra sgarbi e ripicche, princìpi e rigidità. Serve una via d’uscita.