Eppur qualcosa si muove. E lo fa nella direzione allo stesso tempo più comoda e controversa: quella che porta a Mario Draghi. La più comoda perché toglierebbe le castagne dal fuoco a tutti i partiti, che sembrano fare già a gara per attribuirsi la primigenia dell'indicazione, incapaci di trovare sintesi e quadra su scelte di matrice più politica. La più controversa perché non ha precedenti nella storia repubblicana, con un premier chiamato a diventare capo dello Stato e a indicare il suo successore. Nonché, se non altro per galateo istituzionale, a non poter neanche prendere in considerazione l'ipotesi eventuale di sciogliere un Parlamento che lo avrebbe appena eletto presidente della Repubblica. Quando ieri, poco dopo le 15, Umberto Bossi in carrozzina inaugurava i post moderni catafalchi anti Covid per la prima chiamata al voto, i momenti più caldi si vivevano fuori da Montecitorio. Il ritmo serrato di incontri che ha visto protagonista soprattutto Salvini – prima con Draghi, poi Letta, poi Conte, oggi di nuovo Letta – sembrerebbe preludere a un’intesa. E se tutti vogliono ardentemente un candidato autoritario, credibile e non divisivo, si tratta solo di incasellare il nome e via. Magari rassicurando – per via di quel galateo istituzionale di cui sopra – i tanti soldati semplici delle truppe parlamentari, impauriti dalla possibile fine anticipata del loro più o meno miracoloso mandato. Quest'ultima sembrerebbe essere la residua linea di faglia che potrebbe rallentare l'approdo di Draghi al Quirinale. Anche perché - al netto dei candidati di bandiera che durano il tempo di un respiro – ad oggi l'unica altra figura sovrapponibile a quella dell'ex banchiere non può che essere il profilo canuto di Sergio Mattarella. E lì si va solo a rimbalzare, più di quanto non testimoni la quasi cinematografica sequenza del commiato, dagli scatoloni romani di Giovanni Grasso, al camion dei traslochi in via Libertà a Palermo. Draghi e Mattarella salvifici dopo i pastrocchi gialloverde prima e giallorosso poi. Draghi e Mattarella salvifici anche per il Colle - e il governo - che sarà. Non un gran figurone per i partiti, che sgomitano per tornare al centro dell'agorà ma non hanno né la forza dei numeri né quella dell'autorevolezza per riuscire a farlo senza scomodare figure laiche. A meno che non sbocci definitivamente l’opzione Casini, sempre in piedi. In ogni caso se Draghi (o Pierferdi) sarà, se ne parlerà non prima di giovedì, piuttosto che rischiare di sfidare nel segreto dell'urna la soglia dei 673 voti, come hanno dimostrato ieri burloni e perditempo alla ricerca del nome fantoccio per buttarla in caciara. Meglio attendere quorum più agevoli e nel frattempo lavorare di ricamo. A cominciare, dettaglio non da poco, dal nodo dell'erede al governo e annessa rimodulazione della squadra. Perché si può anche indugiare un po' di più sulle analisi quirinalizie, ma non dimentichiamo che ci sono ancora una pandemia da gestire, una vagonata di miliardi col marchio Pnrr da pilotare, riforme strategiche da condurre (giustizia e non solo), perfino lo spettro di una guerra che aleggia sull'Europa. Se per eleggere presto il capo dello Stato si dovesse rischiare di fare molto tardi per riprendere a governare il Paese, allora anche l'elevazione urbi et orbi di Draghi al soglio quirinale si trasformerebbe in un drammatico boomerang.