Scomodare Ugo Foscolo nel contesto della tragedia dolorosa e vergognosa delle bare dei Rotoli, accatastate da due anni come merce di speciali grandi magazzini - quelli in cui si vende la non rara merce del disonore - sarebbe offensivo verso il poeta e intollerabile per i familiari dei praticamente mille morti che in questa città (in)dolente non riescono a trovare pace e sepoltura. Di certo l’ombra dei cipressi evocata da Foscolo è - in parte - l’unico elemento comune tra i suoi Sepolcri e l’infamia del cimitero di Vergine Maria, a Palermo: qui non ci sono le urne confortate di pianto che comunque non rendono il sonno della morte men duro; qui ci sono solo poveri resti abbandonati per terra, dove capita, al caldo di tendoni improvvisati e abusivi, a temperature insopportabili per i vivi e anche per quel che rimane di chi non è più.
Pensare che il poema nasce oltre due secoli fa, da un dibattito culturale in cui le sepolture (fino allora collocate nelle chiese) venivano trasferite per ragioni igieniche in cimiteri allestiti fuori dalle cinta urbane e con lapidi, per ragioni pseudodemocratiche, tutte uguali. Raccontiamo però oggi negli articoli di queste pagine, per l’ennesima volta, come nel secolo XXI la Speme, ultima dea, fugga i non-Sepolcri di Santa Maria dei Rotoli. Scriviamo, evitando il più possibile particolari raccapriccianti, che le bare (tutte democraticamente prive di lapidi e di sepoltura) scoppiano, e non solo per il loro numero esagerato: esplodono per le ragioni fisiche, chimiche dei naturali processi di decomposizione che di regola dovrebbero avvenire sottoterra ma che da noi si svolgono in massima trasparenza, proprio alla luce del sole. Insomma le bare vanno in pezzi, in senso letterale, per effetto del caldo. Soprattutto raccontiamo questo approccio burocratico all’aldilà, il rimpallo delle competenze, i carteggi scritti in giuridichese, il dire e il non dire, il denunciare senza risolvere, il segnalare senza indicare vie d’uscita, insomma quasi il rivolgersi alla suocera dell’ufficio accanto perché la nuora (un qualche ufficio giudiziario, ad esempio) possa intendere più e meglio di quanto già non abbia potuto fare.
Sant’Orsola sì, Sant’Orsola no; campo di inumazione sì, ma dove? E quante salme in terra? E il deposito? Dove lo mettiamo il nuovo deposito? E a proposito, ma i gazebo e le tensostrutture nei viali non erano abusivi? Allora si potrebbe cremare: ma il forno è rotto, peccato. Quindi facciamo le estumulazioni? Certo: ma il regolamento? Come la mettiamo con le regole? Certo, ci sono sempre regole da rispettare: tutte tranne quelle della logica e dell’umanità perduta. Che strazio, che dolore. I parenti assistono impotenti a questo spettacolo indefinibile: come se chi ha lì dentro un genitore, un fratello, peggio ancora un figlio, potesse essere in qualche modo consolato dal sapere che il conteggio quotidiano delle salme non ha ancora superato la soglia psicologica di quota mille, un numero da esorcizzare a ogni costo, in apparenza. Come se 975, 950 o 999 fosse meno grave di 1001.
Tutto questo mentre la terribile canicola di questi giorni costringe i coraggiosi e affezionati visitatori a sopportare il tanfo nauseabondo e una situazione ambientale indegna di un Paese civile. Solo per portare un fiore, per cercare consolazione nell’attesa della sepoltura. Quel che accade ai Rotoli ormai imporrebbe il rispetto di valori che sono stati ampiamente dimenticati: di mettere da parte l’alibi burocratico, lo scaricabarile strutturale, la fuga professionale e abituale dalle responsabilità. Imporrebbe cioè il rispetto di un senso di umanità che va al di là di ogni cosa, anche di una amministrazione che discetta, discute, molto spesso elude e altrettanto spesso delude. Non c’è giustificazione che tenga, davanti allo scempio dei poveri resti abbandonati a se stessi. Eppure si va avanti. Domani ci sarà un’altra scusa. E una quindicina di morti in più, quelli che ogni giorno, più o meno, in città lasciano questa Terra per finire a terra, nei depositi della vergogna del cimitero dei Rotoli.
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