Ma di cosa ci si stupisce, esiste davvero un caso Brusca o stiamo assistendo alla solita pubblica fiera dello stracciamento delle vesti, specialità di politici e anime belle, ogni volta immancabilmente sorprese dal fatto che il tempo passa inesorabile e i collaboratori di giustizia - in ossequio a una legge - avendo finito di scontare la pena, tornano in libertà? Chiamatelo come volete, cinismo, pragmatismo, machiavellismo: fra Stato e mafia c’è da sempre un do ut des che caratterizza il rapporto con i criminali (mafiosi, terroristi, delinquenti comuni) che accettano di collaborare e svelano segreti inconfessabili e soprattutto che pochi confessano. Giovanni Brusca parla, porta risultati giudiziari in termini di sentenze, di condanne, di ergastoli; a Brusca si applica la legge e dunque a fine pena, dopo 25 anni filati - non proprio lo spazio di un mattino - esce dal carcere. Perché non si sospetti una qualche condiscendenza verso un soggetto da 150 omicidi (ma lo scopriamo soltanto adesso, che li ha commessi?) da stragi e crimini di ogni genere, meglio sgomberare il campo dagli equivoci. Che Brusca sia un personaggio pessimo, non c’è dubbio: ma molti magistrati ripetono che questo spesso è sinonimo di conoscenze più profonde. Che Brusca non abbia detto tutto, è altrettanto sicuro: ma se si può dubitare della sua affidabilità nel riferire quel che sa, si potrebbe persino ipotizzare che, pur di accreditarsi, in alcuni casi si sia spinto oltre le proprie reali conoscenze. Non va dimenticato che il giovanissimo Verru fu perdonato un paio di volte, per defaillance che a chiunque non fosse stato figlio di Bernardo Brusca sarebbero costate carissime. Se è vero che posò in un giardino di Monreale i tre assassini del capitano Emanuele Basile e se è vero che persino Leoluca Bagarella una volta si spinse in aula a fare una battuta («Presidente, gli chieda dov’era») quando disse di avere avuto un ruolo di rilievo nell’omicidio del colonnello Russo. Insomma, Brusca è e resta un personaggio ambiguo, negativo, da guardare con sospetto e diffidenza. Pure come criminale. E per questo, memori anche dei raid sangiuseppari del suo nemico Balduccio Di Maggio, bisognerà stare attentissimi a rigurgiti vendicativi e a comunque pericolosi rientri in Sicilia. Però lo Stato ha avuto bisogno di Brusca, quando era in ginocchio e lui - non proprio un cuor di leone, come s’è detto - sapendo che non sarebbe più uscito dal carcere, s’è fatto pentito per farsi applicare regole che si applicano a tutti i pentiti. Facile discettare di queste cose, quando si parla senza avere una vittima di mafia tra parenti, amici, conoscenti, quasi impossibile non dare ascolto al grido di dolore di chi ha perso genitori, figli, mariti, mogli per mano dei killer mafiosi. Però anche i familiari sanno che difficilmente avrebbero avuto giustizia senza quel patto, sollecitato dallo stesso Giovanni Falcone per scardinare dall’interno un’organizzazione segreta, difficile da penetrare, tracotante e considerata invincibile perché, con l’omertà e la violenza estrema di cui era capace, riuscì a rimanere impunita per tanto, troppo tempo. Brusca godeva di permessi da anni, era finito nei guai perché - ancora una volta - accusato di non aver detto tutto, a proposito dei propri soldi. Una volta polemizzò perché non gli davano un telefonino per il figlio. Però è servito. La notizia della sua liberazione per fine pena arriva nei giorni del dibattito sull’ergastolo ostativo, dopo la sentenza della Consulta che estende alcuni benefici premiali anche a chi non abbia mai collaborato e non abbia intenzione alcuna di farlo. Associare le due cose, a ben vedere, porta acqua al mulino proprio di Brusca: lui almeno i benefici li ottiene dopo avere detto non tutto, ma parecchio sì. Resta comunque il fatto che in Italia la pena di morte è abolita e che il carcere, secondo la Costituzione, dovrebbe servire a rieducare e non a seppellire definitivamente. Anche se rimane difficile, se non impossibile, spiegarlo alle vittime.